Mar
15
2012
Monti il Pd e la mossa del cavallo
Articolo pubblicato su "Europa"

"Quando si nomina la mossa del cavallo si pensa a Vittorio Foa. Ma cos'è la mossa del  cavallo? È una furbizia tattica per spiazzare l'avversario? Un movimento inaspettato che ti dà il vantaggio della sorpresa?  Un éscamotage politicante? (...) O è invece qualcosa di più profondo, il prodotto di una intelligenza capace di sottrarsi al meccanismo della replica e della coazione a ripetere, il risultato  di un atteggiamento critico che è rivolto verso se stessi non meno che verso gli altri? In altre parole l'espressione creativa di una straordinaria libertà della mente di guardare oltre gli schemi? E questo non deve valere in particolare nell'azione politica?"

Ho preso in prestito questo efficace crescendo di domande retoriche, da una bella relazione di Pietro Marcenaro su Vittorio Foa, perché è al suo (di Foa) elogio della "mossa del cavallo" che ho pensato quando, il 20 febbraio scorso, ho visto la lettera dei dodici paesi a Barroso e Van Rompuy, promossa da Mario Monti. "Un piano per la crescita in Europa" è il titolo del documento, che ha colto di sorpresa l'asse franco-tedesco e ha iniziato a ridisegnare gli equilibri all'interno dell'Unione.

Merkel e Sarkozy erano preparati all'attacco della torre, ma non a quello del cavallo. Avevano messo nel conto un fronte mediterraneo che chiedesse uno sconto sul rigore. E un fronte "socialdemocratico", che chiedesse quanto meno di affiancare alla disciplina fiscale una politica espansiva, finanziata da strumenti di indebitamento europeo. Avevano, in particolare la cancelliera tedesca, le risposte già pronte: sul rigore non si possono fare sconti, perché la stabilità finanziaria è un valore "non negoziabile" e del resto i mercati non apprezzerebbero e gli spread continuerebbero a crescere; quanto ai Bond europei, i tempi non sono ancora maturi, perché una messa in comune dei debiti degli stati non è politicamente (ed elettoralmente) sostenibile, e nuovo debito federale per investimenti sarà possibile solo dopo il risanamento.

L'Italia di Monti ha sorpreso l'Europa (e il mondo), perché ha lasciato ferma la torre e ha mosso il cavallo. Roma ha spalancato le porte che Berlino voleva sfondare: sì al pareggio di bilancio, subito e senza sconti. E non perché ce lo chiede l'Europa, ha ripetuto più volte il nostro premier, ma perché è interesse vitale dell'Italia uscire dalla tossicodipendenza da debito pubblico. Al tempo stesso, Monti ha aperto un nuovo fronte, formando un asse non alternativo, ma integrativo rispetto a quello carolingio-continentale, nel quale peraltro l'Italia è tornata partner accettato e anzi ricercato. Potremmo chiamarlo un asse, o meglio ancora una rete "marinara", che congiunge il Mediterraneo con l'Atlantico (entrambe le sponde...) fino al Baltico. Nel dibattito europeo, prigioniero di una opposizione binaria tra rigore "ordoliberale" (non "liberista"!) franco-prussiano, centrato sulla forza degli stati in pareggio di bilancio, e sviluppismo trainato dalla spesa pubblica, sia pure federale e non più principalmente statale, la rete "marinara" introduce una dimensione nuova, quella del mercato come grande fattore di crescita e perfino di equità, in quanto rimuove, in nome dell'efficiente allocazione delle risorse e dell'uguaglianza delle opportunità, rendite di posizione ossificate.

Con la sua mossa del cavallo, Monti ha quindi riportato l'Italia al centro del "grande gioco" europeo (e non solo), in quanto portatrice di una visione più avanzata (e sofisticata) rispetto a quelle degli altri protagonisti: disciplina fiscale, certo; crescita trainata da grandi investimenti finanziati dal debito europeo, certo; ma anche e soprattutto crescita generata da un grande mercato unico europeo liberalizzato. La visita romana della Merkel, con la significativa accettazione, da parte della cancelliera, dell'agenda liberalizzatrice del professore, ha suggellato in modo clamoroso il successo italiano.

Sarà una bella cosa, se di questo successo italiano, nazionale ed europeo al tempo stesso, si potrà avvertire l'eco nella suggestiva iniziativa parigina di sabato prossimo, quando i leader progressisti di tutta Europa, tra i quali il segretario del Pd, si stringeranno attorno a Francois Hollande e alla sua difficile e decisiva battaglia per l'Eliseo. Non è più tempo di sterili dispute, al nostro interno, sulle relazioni europee dei democratici italiani. L'equilibrio che abbiamo trovato, con la costituzione del gruppo dei socialisti e democratici europei al parlamento di Strasburgo, si è rivelato solido e fecondo. Il problema non è più tanto con chi stiamo, quanto cosa diciamo. Il Pd ha avuto sin dalla sua costituzione l'ambizione di rappresentare la "mossa del cavallo", necessaria a far uscire la politica italiana dalle contrapposizioni del Novecento e in questo modo contribuire anche alla necessaria innovazione delle famiglie politiche europee. Il successo del nostro governo, il governo che abbiamo voluto e sosteniamo, per il bene dell'Italia e dell'Europa, è la migliore conferma della lungimiranza delle nostre scelte. Sarebbe paradossale che non fossimo noi i primi a saperlo e a rivendicarlo.

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