Dec
18
2013
Renzi e Letta, i due "cavalli di razza" del Pd
Pubblicato su: www.lavalsugana.it

Terza settimana "storica" di fila: dopo quella della decadenza di Berlusconi e della fine delle larghe intese; e dopo quella della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il Porcellum, la scorsa settimana è stata quella del trionfo di Matteo Renzi alle primarie del Pd e della fiducia al governo Letta, pressoché immutato nel suo organigramma, ma profondamente trasformato nella sua base parlamentare e ancora di più nel suo significato politico.

Domenica 8 dicembre sera, Matteo Renzi non ha vinto, ha "stravinto" le primarie del Pd. Non tanto per la sua cifra elettorale: Veltroni nel 2007 aveva sfondato il muro del 70 per cento con più di 2 milioni di voti, mentre Renzi è rimasto al di qua di entrambe le soglie. Quanto invece per la qualità politica della sua vittoria, costruita non attraverso un accordo di quasi tutte le anime del partito, come era stato per Veltroni, ma attraverso un aperto conflitto, insieme politico e generazionale, iniziato come una corsa solitaria e finito con un'elezione plebiscitaria.

E poi, per la dimensione della sconfitta politica del suo avversario: Gianni Cuperlo, il candidato di D'Alema, Bersani, Finocchiaro, Fassina, Sposetti, Reichlin, Damiano, Errani, Enrico Rossi, Zingaretti... insomma, tranne Veltroni e Fassino, di tutta la nomenclatura ex-ds, vecchia e giovane, insieme ad una parte importante di ex-ppi, a cominciare da Marini e Fioroni e da diversi bindiani e lettiani, non è riuscito ad arrivare al 20 per cento.

Alla base della vittoria di Renzi, mi pare ci siano due ragioni fondamentali. La prima è la proposta politica del sindaco di Firenze: una proposta, per così dire, "validata" sia dalla prova di lealtà offerta dal giovane outsider, dopo la sconfitta alle primarie dell'anno scorso, sia soprattutto dalla "non vittoria" di Bersani alle elezioni, con tutto quel che ne è conseguito.

La proposta politica di Renzi è facile da capire, anche se non sarà affatto facile metterla in pratica: se vogliamo tornare a vincere, dice il nuovo segretario del Pd, dobbiamo conquistare nuovi consensi, non limitarci ad amministrare il presunto "zoccolo duro" della sinistra tradizionale; ma per conquistare voti nuovi, riprendendoci quelli che ci ha portato via Grillo e convincendo una parte di ex-elettori di centrodestra delusi da Berlusconi, dice ancora Renzi, dobbiamo cambiare in profondità il partito, facendo camminare nuove idee, un pensiero democratico adatto ai problemi del Duemila e non più a quelli del Novecento, sulle gambe di una nuova generazione di dirigenti.

La seconda ragione della vittoria di Renzi sta nella debolezza dello schieramento che si era radunato attorno a Cuperlo, messa in evidenza dalla stessa presenza e dal relativo successo di quella che potremmo definire "l'altra sinistra", chiamata a raccolta dal terzo candidato, Pippo Civati.

Una debolezza doppia, quella dello schieramento "cuperliano": da un lato, la stanchezza di un ceto dirigente, sia politico che amministrativo, incapace di rinnovarsi, basato sull'occupazione soffocante e non sempre trasparente del potere, sulla fedeltà correntizia e sul metodo della cooptazione come unico canale di reclutamento (non a caso i risultati più clamorosi Renzi li ha avuti nelle cosiddette "regioni rosse", riuscendo a interpretare una diffusa insofferenza verso questo modo di fare politica); dall'altro, la perdita di creatività, a favore della nostalgia, e la paura dell'innovazione, vista come tradimento, nel discorso pubblico proposto da Cuperlo: l'esatto contrario di ciò che serve al Pd per capire i cambiamenti in atto nella società e cercare di rappresentarli politicamente.

Il primo risultato della vittoria di Renzi è stato il ritrovato slancio dell'azione parlamentare del Pd. Martedì 10 dicembre sera, il nuovo segretario si è incontrato con i deputati e i senatori democratici. La sala più grande del parlamento italiano (a parte le due aule, che non possono essere usate per riunioni di gruppo), cioè l'auletta dei gruppi parlamentari in via di Campo Marzio, a pochi passi da Montecitorio, faticava a contenerci tutti. Siamo infatti quasi quattrocento, tra deputati e senatori, e in molti siamo rimasti in piedi.

Renzi è stato, come al solito, molto chiaro. Ha detto che dai gazebo delle primarie i nostri elettori ci hanno trasmesso "un messaggio civile di cambiamento radicale". A questo messaggio bisogna corrispondere, non mettendo in crisi la stabilità, ma utilizzandola per il cambiamento, non per il galleggiamento o il rinvio.

Renzi ha detto in modo inequivocabile che non intende in alcun modo mettere in crisi il governo. "Per me può andare avanti per tutta la legislatura, fino al 2018", ha detto, esagerando per farsi capire. "Certo non penso a elezioni subito", ha continuato. Quello che conta è che il governo lavori, che faccia ciò che serve al Paese. L'Italia, ha detto ancora Renzi, ha bisogno di riforme profonde, di un decennio di cure riformiste. E, tanto per cominciare, di un anno di terapia d'urto, che deve produrre risultati già nei primi mesi del 2014, sulla base di un preciso accordo di governo, da siglare tra le forze di maggioranza, sul modello del contratto Cdu-Spd in Germania.

La prima scadenza, che è anche la prima verifica elettorale, è quella delle europee, nella prossima primavera. Entro quella data, ha detto Renzi, dobbiamo approvare in Parlamento, in via definitiva, una nuova legge elettorale maggioritaria (ripartendo dalla Camera) e, in prima lettura, cominciando dal Senato, la riforma costituzionale che riduce i parlamentari (in sostanza eliminando i senatori eletti, al posto dei quali diventeranno senatori i presidenti di regione e un certo numero di sindaci), superando l'attuale bicameralismo paritario.

Palazzo Madama diventerà in tal modo la sede del nostro "Bundesrat", la Camera delle autonomie sul modello tedesco, competente su alcune, ben circoscritte materie. Mentre il cosiddetto "circuito fiduciario", tra Parlamento e Governo, sarà competenza esclusiva della Camera dei Deputati. Le altre due priorità, indicate da Renzi per l'agenda del Governo, sono il lavoro e la scuola, entrambe da affrontare sulla base di un approccio coraggiosamente innovativo.

Sono uscito da quella riunione molto contento. Ho visto quella gran massa di parlamentari, la stragrande maggioranza dei quali giovani e alla prima legislatura, che prima sembrava un'orda disordinata, la stessa che si era abbattuta sulle candidature al Quirinale proposte da Bersani, prima su quella di Marini e poi, subdolamente, su quella di Romano Prodi, ritrovare (almeno per ora) ordine e disciplina, diventare un esercito organizzato, con un piano di battaglia, una gerarchia, un comandante legittimato a guidare le sue truppe...

E mi è parso anche di vedere un giovane leader, che pensava di candidarsi alla guida del Paese saltando il passaggio del partito, cominciare ad apprezzare il ruolo al quale le circostanze storiche e il vento del favore popolare lo hanno portato: la guida del primo partito italiano, il partito di maggioranza relativa in Parlamento, il partito che guida il Governo del Paese.

Ecco, appunto, il Governo. Mercoledì 11, al mattino alla Camera e al pomeriggio al Senato, il presidente del Consiglio, Enrico Letta, si presenta in Parlamento per una nuova fiducia, dopo la scissione del Pdl, con la componente berlusconiana (la nuova Forza Italia) che è uscita dalla maggioranza, al contrario del Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano che è rimasto al Governo.

Gli effetti della "cura Renzi" su Letta e il suo Governo appaiono vistosi. Letta tiene un discorso tonico, in parte difendendo l'operato del Governo, in parte polemizzando, in modo garbato ma fermo con Berlusconi, in modo molto duro con Grillo, ma soprattutto indicando, sulla falsariga tracciata da Renzi, un programma molto preciso, che diventerà dettagliato e scadenzato in gennaio, con la sigla dell'accordo di programma "alla tedesca".

Mi viene da pensare, mentre ascolto Letta, che come la Dc dei tempi d'oro, anche noi democratici abbiamo oggi due giovani "cavalli di razza": uno al governo e l'altro al partito, uno bruscamente e vitalmente toscano come Fanfani, l'altro mediatore e tessitore come Moro, che se riusciranno ad andare d'accordo potranno davvero fare del Pd la leva per portare il Paese oltre la crisi, verso una rinascita economica, sociale, democratica.

Mi colpisce, ascoltando in diretta tv il dibattito alla Camera, l'intervento di Fabrizio Cicchitto, protagonista con Alfano del Nuovo centrodestra. Sembra che Cicchitto abbia preso un suo vecchio intervento da socialista e lo abbia riciclato, cambiando solo nomi, sigle e date. Come i socialisti vagheggiavano l'alternativa di sinistra col Pci, ma in attesa che i comunisti regolassero i conti con l'Unione sovietica governavano con la Dc, cambiato il tanto che c'è da cambiare, oggi il Ncd continua a teorizzare un possibile nuovo incontro con Forza Italia, ma intanto si trova a governare col Pd, perché questo è oggi l'unico governo possibile.

È come se fossimo tornati alla stagione della "governabilità", quando i governi a guida Dc erano gli unici possibili. Oggi la funzione di perno della governabilità è stata assunta dal Pd, un Pd emblematicamente guidato da due giovani leader di scuola democristiana... Vedremo.

Domenica 15 a Milano si è riunita la nuova Assemblea nazionale del Pd, che ha ratificato l'elezione di Renzi alla segreteria ed ha votato la nuova direzione. La maggioranza del nuovo gruppo dirigente è fatta di giovani, tra i quali la trentina Elisa Filippi. Ma c'è anche qualche vecchietto non ancora rottamato, come me. Come direbbe Fabrizio De André, il nostro compito sarà sempre più quello di dare buoni consigli, man mano che potremo sempre meno dare il cattivo esempio.

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