Nov
04
2013
Voto palese su Berlusconi
Pubblicato su: www.lavalsugana.it

Ancora non sappiamo quando, se prima o dopo la legge di stabilità, quindi se all'inizio o alla fine di novembre. Ma ora sappiamo "come" voterà il plenum del Senato sulla proposta della Giunta per le elezioni di dichiarare decaduto Silvio Berlusconi: sarà un voto palese e non segreto.

Lo ha deciso mercoledì scorso, 30 ottobre, la Giunta per il regolamento di Palazzo Madama. Lo ha deciso a maggioranza, di stretta misura: 7 voti contro 6. Si sono espressi a favore del voto palese i 3 membri del Pd, i 2 grillini, la rappresentante di Sel e, vero ago della bilancia, la senatrice Linda Lanzillotta di Scelta civica; si sono invece schierati per il voto segreto i 3 del Pdl, il leghista, il rappresentante degli autonomisti di centrodestra e, un po' a sorpresa, in dissonanza dal Pd, il sudtirolese Karl Zeller. Come da prassi consolidata, il presidente del Senato, Piero Grasso, non ha votato.

Dunque, un voto controverso. Ma chi ha ragione? Come spesso accade, non è affatto evidente. Sappiamo come la pensa la stragrande maggioranza degli italiani: no al voto segreto, vogliamo sapere (sempre) come vota ogni parlamentare. Il voto palese è in effetti garanzia di trasparenza e corrisponde ad un principio di responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori: argomenti tanto più forti in un'epoca di crisi di credibilità della politica e delle istituzioni democratiche.

Non mancano tuttavia ragioni che militano a favore del voto segreto, sia pure come eccezione e certo non come regola: la principale di queste ragioni è la garanzia della libertà di coscienza del parlamentare, che deve potersi esprimere, in certi casi, nell'interesse del buon funzionamento delle istituzioni democratiche, senza subire pressioni esterne di nessun genere. Ad esempio, la Costituzione, al terzo comma dell'articolo 83, prescrive che il Presidente della Repubblica sia eletto a "scrutinio segreto".

La norma è impopolare, come dimostra la diffusa insofferenza per i "franchi tiratori", ossia per i parlamentari che nel segreto dell'urna si comportano in modo diverso dalla posizione assunta pubblicamente (emblematico il caso dei famigerati 101 che hanno pugnalato alle spalle Romano Prodi). Ma la norma ha un suo perché, tutt'altro che banale: per garantire autonomia, indipendenza, in definitiva autorevolezza, al presidente della Repubblica, la Costituzione vuole che la sua elezione sia il risultato non solo di un accordo tra capi-partito, che potrebbero così trasformarlo in uno strumento docile nelle loro mani, ma anche e soprattutto dell'intimo convincimento della maggioranza qualificata dei grandi elettori, quale può essere garantito solo dalla segretezza del voto.

All'estremo opposto, all'articolo 94, la Costituzione prescrive che la fiducia al Governo sia votata "per appello nominale": in pratica ogni deputato e ogni senatore deve dire a voce alta, davanti a tutti, come si schiera rispetto al Governo, se in maggioranza o all'opposizione. Anche in questo caso, la ragione della norma è evidente: per poter funzionare, il Governo deve poter contare su una maggioranza parlamentare chiara e ben definita, quale solo il voto palese può garantire.

Tra questi due estremi, il voto per il Presidente della Repubblica (obbligatoriamente segreto) e quello di fiducia (obbligatoriamente palese), la Costituzione lascia ai regolamenti delle due Camere decidere in quali casi votare in un modo o nell'altro.

Nella cosiddetta "Prima Repubblica", i regolamenti consentivano un ricorso pressoché illimitato al voto segreto. Con il conseguente trionfo dei franchi tiratori, qualunque fosse la legge su cui si votava, e i conseguenti effetti devastanti sulla stabilità dei governi, la coerenza delle norme approvate e la tenuta dei conti pubblici. Fu Bettino Craxi, da presidente del Consiglio, a chiedere e ottenere dalla Dc di De Mita (mentre il Pci si opponeva duramente), una modifica dei regolamenti che rendesse il ricorso al voto segreto un'eccezione e non più la regola.

Di fatto oggi il voto segreto è obbligatorio quando si elegge qualcuno a qualche carica interna (dal presidente del Senato a quelli di commissione), o esterna al Parlamento (come la quota di competenza parlamentare dei giudici della Corte costituzionale). Il voto segreto è invece consentito, su richiesta di un certo numero di parlamentari, quando si esaminano proposte di legge (o si vota su materie) che trattano dei diritti di libertà fondamentali. Tra queste materie ci sono sempre state anche le dimissioni di senatori (che debbono essere accolte dall'aula, a garanzia che non siano frutto di indebite pressioni) e tutte le votazioni in materia di autorizzazione all'arresto, o all'intercettazione di parlamentari, o anche a procedere contro di loro per reati di opinione (per tutti gli altri reati, dal 1992 l'autorizzazione a procedere non c'è più).

Alla luce di tutto questo, la domanda che è stata sottoposta alla Giunta per il regolamento di Palazzo Madama è stata dunque la seguente: il caso del voto sulla decadenza di Berlusconi, sulla base della legge Severino (che rende ineleggibile e anzi incandidabile chi abbia subito una sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione e prescrive che sia "immediatamente" dichiarato decaduto chi venga a trovarsi in questa condizione nel corso del suo mandato), in quale "famiglia" di votazioni rientra? In quelle nelle quali è obbligatorio il voto palese, o in quelle in cui è possibile chiedere il voto segreto?

Diciamo subito che tutti convengono su quale sia la base "costituzionale" del voto sulla decadenza di Berlusconi: è l'articolo 66 della Carta che afferma laconicamente: "ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità".

La tesi di chi ha difeso la possibilità di richiedere il voto segreto è che si tratta di un voto su una persona. E che in tutti i casi dubbi, non esplicitamente normati dal regolamento, si è sempre consentito il voto segreto. La tesi contraria sostiene invece che si si tratta di un voto sulla legittima composizione del Senato, non dovendo né potendo il Senato stesso esprimere alcun giudizio su una sentenza definitiva che va solo applicata. E che il regolamento della Camera prescrive in questi casi il voto palese, mentre quello del Senato tace: in questo caso, rifarsi per analogia al regolamento della Camera può essere la cosa più corretta da fare.

Per come la vedo io, quando la norma tace, non può che entrare in campo una valutazione di opportunità, che è sempre politica. E la valutazione di opportunità che hanno fatto i miei colleghi del Pd (e che condivido) è in sostanza la seguente: nell'incertezza, teniamoci il più possibile in contatto con il sentimento prevalente nell'opinione pubblica, notoriamente favorevole al voto palese. "Vox populi, vox Dei", dice un antico proverbio.

Intendiamoci, non sempre è vero: il popolo, a gran voce, preferì salvare Barabba e su Gesù gridò quel terribile "crucifige!" Ma in questo caso, così drammaticamente politico, per quale ragione di principio ci si sarebbe dovuti opporre al sentimento prevalente nell'opinione pubblica? E per quale ragione di principio il Pd si sarebbe dovuto esporre alle possibili, anzi probabili, manovre strumentali e propagandistiche, ad esempio del M5S, coperte dal voto segreto?

Certo non può essere, questa ragione di principio, il presunto "diritto" di Berlusconi di non decadere da senatore in quanto leader di una grande forza politica nazionale. Questo diritto, infatti, semplicemente non esiste. In tutti i paesi del mondo (libero e democratico, certo) Berlusconi di sarebbe già dimesso da un pezzo, sia da parlamentare che da leader. E un altro, da un pezzo, sarebbe al suo posto, di parlamentare e di leader.

Questo è dunque il testo del parere approvato: "La Giunta per il Regolamento esprime il parere che nei casi di mancata convalida per incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare, le deliberazioni su eventuali ordini del giorno in difformità dalle conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, ai sensi dell'articolo 135-ter, comma 2, del Regolamento, sono sottoposte alla disciplina generale relativa ai modi di votazione e, pertanto, devono essere votate in maniera palese. Tali deliberazioni costituiscono espressione di una prerogativa dell'Organo parlamentare, a tutela della legittimità della propria composizione.

Pertanto, le stesse deliberazioni non rappresentano in senso proprio votazioni riguardanti persone, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 113, comma 3, del Regolamento".

Il 23 ottobre scorso, il Senato è tornato ad occuparsi di riforme costituzionali, votando per la seconda volta, come prevede la Costituzione (ora l'ultima parola spetta alla Camera) una deroga alla procedura prevista dall'articolo 138 della Carta. La deroga, che è stata aspramente contestata dalle opposizioni, consente l'istituzione di un comitato bicamerale, al quale spetterà  la stesura dei testi di revisione costituzionale, da portare poi al voto delle due Camere e del referendum confermativo.

Per le motivazioni del mio voto favorevole, rinvio al testo della dichiarazione di voto, a nome del Pd, che ho tenuto nell'aula di Palazzo Madama e che è pubblicata sul mio sito www.giorgiotonini.it.

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