Oct
15
2013
Un piccolo grande emendamento
Pubblicato su www.lavalsugana.it

Con ancora negli occhi l'orrore della tragedia di Lampedusa, il messaggio di Napolitano sulla condizione delle carceri, il decreto sulla pubblica amministrazione, la nota di aggiornamento al DEF (Documento di economia e finanza, il programma che ispira la legge di stabilità) e il decreto contro il femminicidio sono stati gli argomenti principali della settimana scorsa in Senato.

Il messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere è stato letto nell'aula di Palazzo Madama dal presidente Grasso martedì 8 ottobre pomeriggio, in apertura di seduta. Napolitano ha ricordato al Parlamento il vergognoso stato in cui versano i detenuti nel nostro Paese, costretti a vivere in condizioni inumane, ammassati in quasi 70 mila in spazi previsti (di solito uno o due secoli fa) per 45 mila.

Si tratta di una patente violazione della Costituzione italiana, che all'articolo 27 afferma solennemente che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Ma anche di una clamorosa violazione di tutte le normative internazionali sui diritti umani: non a caso l'Italia è fatta oggetto, ormai da anni, di ripetute condanne europee e internazionali.

Napolitano ha detto in sostanza a noi parlamentari e ai nostri gruppi e partiti che la situazione, così com'è, è insostenibile e intollerabile. E che dopo aver perso troppo tempo, possiamo e dobbiamo fare tre cose: rivedere le leggi per rendere meno frequente la carcerazione, almeno quella preventiva, e più rapido l'iter dei processi; aumentare il numero dei posti in carcere, costruendo nuovi penitenziari, degni di un paese civile; oppure assumerci, ancora una volta la responsabilità di non essere stati e di non essere capaci di fare né l'una né l'altra cosa, dichiarare con onestà il nostro ennesimo fallimento e votare un provvedimento di clemenza.

Il sasso nello stagno gettato da Napolitano ha suscitato un vasto dibattito, nel quale peraltro la questione centrale è subito diventata quella degli effetti di un eventuale indulto e un'eventuale amnistia sulle condanne e i processi di Berlusconi. Con disperante prevedibilità, si sono così riformati i soliti schieramenti: da una parte quelli che dicono si ad amnistia e indulto, purché non "salvino" Berlusconi, altrimenti meglio non farne nulla; dall'altra quelli che dicono no ad entrambi, a meno che non siano il prezzo da pagare per far uscire in modo definitivo Berlusconi dal gorgo giudiziario nel quale sta affondando. 

Con schieramenti siffatti, appare improbabile che si riesca a trovare in Parlamento quella maggioranza dei due terzi che è prevista per adottare un provvedimento di clemenza. D'altra parte, non pare ci sia, in questo parlamento, neppure una maggioranza per rivedere due tra le leggi più "carcerogene": la Bossi-Fini, col reato di immigrazione clandestina; e la Giovanardi, con i reati connessi alle tossicodipendenze. Quanto alla costruzione di nuove carceri, ci vorrebbe un'idea innovativa (ad esempio, la cessione ad enti locali, come è avvenuto a Trento, o anche a imprenditori privati, delle aree pregiate nelle quali insistono di solito le vecchie carceri, in cambio della costruzione di nuovi penitenziari in aree periferiche): altrimenti, con le attuali condizioni della finanza pubblica, non c'è da sperare in alcuna svolta nella situazione dell'edilizia carceraria.

Sabato, da Bari, nel discorso col quale ha lanciato la sua candidatura alla segreteria del Pd, Matteo Renzi ha detto un no chiaro ad amnistia e indulto e un si altrettanto chiaro alle altre due piste di lavoro. C'è chi si è un po' ipocritamente stracciato le vesti accusandolo di avere bestemmiato contro Napolitano. I lettori di questa rubrica conoscono la mia venerazione per il presidente della Repubblica. Ma io penso che Renzi abbia fatto bene a posizionarsi in questo modo.

Amnistia e indulto, comunque la si giri, sono una resa dello Stato che confessa la sua incapacità di riformarsi. Deve scarcerare i detenuti perché è costretto ad ammettere di non essere in grado di trattarli come Costituzione e convenzioni internazionali comandano. Deve piegarsi all'illegalità, rinunciando a perseguirla o a punirla, per non essere esso stesso accusato di illegalità e dunque perseguito e punito. Può essere che questa sia, allo stato degli atti, l'unica, amara, conclusione possibile.

Ma non si può chiedere ad un leader che si affaccia ora sulla scena politica nazionale, anche a nome di una nuova generazione, di esordire con un messaggio di rassegnazione, anziché con uno di speranza. Renzi deve credere prima di tutto lui, e poi deve riuscire a convincere la maggioranza degli italiani, che le riforme necessarie e giuste sono anche possibili. Compresa la riforma della giustizia. Sul messaggio di Napolitano è previsto un dibattito parlamentare: vedremo a cosa porterà.

Dal punto di vista quantitativo, in ore e numero di votazioni, la settimana è stata impiegata soprattutto nell'esame del decreto D'Alia (dal nome del ministro della Funzione pubblica che lo ha proposto) sulla pubblica amministrazione: un provvedimento corposo, pieno zeppo di norme che solleticano gli istinti dei più svariati corporativismi. In questi casi, le aule parlamentari si trasformano in giganteschi suk. Ed è proprio in questi casi che si apprezzano i sempre più severi vincoli costituzionali ed europei sul pareggio strutturale di bilancio, unico baluardo contro l'assalto alla diligenza. Del resto, è in assenza di quei vincoli che, nei decenni passati, il debito pubblico è esploso, con le gravi conseguenze che oggi dobbiamo pagare.

Nei tanti interventi (assolutamente trasversali: dal M5S al Pdl passando per tutti gli altri) degli appassionati sostenitori delle rivendicazioni, più o meno legittime, più o meno giustificate, di questa o quella categoria di pubblici dipendenti, si è sentito ripetere, ancora una volta, il vecchio ritornello del primato della politica sui vincoli "tecnici". Ove per politica si intenderebbe, curiosamente, il primato dell'interesse di parte su quello collettivo. Dimenticando che i parlamenti, ovvero la sede privilegiata della politica democratica, sono nati per limitare i poteri dei re, a cominciare proprio dal potere di spesa: "no taxation without representation" è uno dei principi fondanti della democrazia parlamentare.

I pubblici dipendenti, cioè i funzionari del re, oggi del governo, dovrebbero quindi, in una democrazia sana, trovare nel parlamento la loro dura e arcigna controparte, scrupolosamente e occhiutamente attenta alla produttività del loro lavoro, nell'esclusivo interesse del cittadino contribuente e utente. E invece, questi come tutti gli altri "vested interests", trovano oggi la melmosa palude nella quale esercitare la loro azione di lobbying e trovare le complicità necessarie a far valere i loro interessi corporativi. È in questo capovolgimento di ruolo, da custode dell'interesse generale, in difensore mercenario di questa o quella rivendicazione particolare, che risiede probabilmente una delle principali ragioni del crescente discredito dei parlamenti.

 nch'io ho esercitato, nella discussione e approvazione del decreto D'Alia, una tenace e in definitiva efficace azione di lobbying, riuscendo a far approvare un emendamento che modifica la disciplina del rimborso delle spese di trasloco internazionale per i diplomatici e le altre categorie di dipendenti pubblici addetti alle nostre ambasciate. Ma credo di averlo fatto esaltando e non mortificando la funzione istituzionale del parlamentare.

Il mio emendamento, che prevede un meccanismo di rimborso forfettario anziché a piè di lista, comporta infatti un taglio a quel capitolo di spesa di 4,8 milioni su 13. Una goccia nel mare, ma pur sempre una goccia di spesa in meno, anziché in più. E il bello è che in questa mini-mini-riforma, un piccolo esempio di vera "Spending Review", ho avuto dalla mia parte il consenso attivo dei diplomatici, che cominciano a capire che l'unico modo di difendere con efficacia i loro interessi è quello di ripensarli in una prospettiva lungimirante, che si faccia carico della produttività dell'amministrazione, in questo caso il ministero degli Esteri.

Penso di aver fatto il mio dovere di parlamentare anche nel mio intervento, mercoledì 9 pomeriggio, sulla Nota di aggiornamento al DEF. Perché non ho auspicato questa o quella misura a sostegno di questa o quella categoria. Ma ho cercato di fare il punto sulla situazione economica del Paese e di avanzare qualche proposta al governo.

Ho richiamato la fotografia in chiaroscuro che il documento propone sulla finanza pubblica. Una massa imponente di risorse: più di 800 miliardi di euro, la metà abbondante della ricchezza nazionale. Per quantità, una spesa da grande e civile paese europeo, quale l'Italia in effetti è. Per qualità, una spesa che non riesce ad essere né volano di crescita economica, né fattore di riduzione delle diseguaglianze sociali. Una spesa quindi che non può certo essere ulteriormente dilatata, ma che deve invece essere riorientata. In parte questo sta avvenendo, con il calo costante della spesa per il personale e quella per i consumi intermedi della pubblica amministrazione. Continua invece a crescere, ma a ritmi sempre meno rapidi, la spesa sociale, mentre crolla quella per investimenti e questa è una gran brutta notizia.

Quattro le linee di intervento che ho proposto per riqualificare la nostra finanza pubblica nella direzione della crescita e della lotta alle disuguaglianze. La prima è concentrare le manovre di alleggerimento del fisco sull'impresa e sul lavoro (Imu e anche Iva vengono dopo). La seconda è fare sul serio la "Spending Review", per costruire nel giro di qualche anno una pubblica amministrazione più leggera e più efficace. La terza è un intervento deciso per ridurre il debito, utilizzando il patrimonio. La quarta è utilizzare il credito riconquistato in Europa, grazie alle politiche di rigore attuate dal governo Monti, per spingere verso la realizzazione di un patto per la crescita, almeno tra i paesi dell'euro.

L'esame del decreto D'Alia sulla pubblica amministrazione è andato avanti fino a tutto giovedì 10 ottobre pomeriggio. Il Senato ha quindi dovuto eccezionalmente riunirsi anche di venerdì mattina per approvare in via definitiva, pena decadenza, il decreto sul cosiddetto "femminicidio". Come i lettori sanno, i decreti del governo, autorizzati dal presidente della Repubblica, entrano immediatamente in vigore, ma devono essere convertiti in legge, cioè approvati, dal parlamento, entro 60 giorni, altrimenti decadono. Il decreto contro il femminicidio era stato emanato il 14 agosto scorso, dunque doveva essere convertito entro il 14 ottobre, pena decadenza. Di solito, i 60 giorni di tempo per la discussione e l'approvazione parlamentare vengono equamente ripartiti tra le due camere. Stavolta la Camera ha trasmesso il decreto al Senato solo il 9 ottobre, cinque giorni prima della decadenza. Perché tanto ritardo?

La regione è essenzialmente una: perché il governo ha infarcito il decreto contro il femminicidio di norme spurie. Accanto alle misure di prevenzione contro la violenza domestica e di aggravio delle pene contro la violenza sulle donne, che speriamo si rivelino almeno utili nel contrasto alla violenza di genere, nel decreto ci sono norme che col femminicidio non c'entrano nulla: altre norme in materia di sicurezza e ordine pubblico (compresa la violenza negli stadi, il furto di rame, o le frodi digitali), norme in materia di protezione civile e perfino sul commissariamento delle province.

Questa pessima pratica italiana dei decreti omnibus rende la nostra legislazione confusa e farraginosa. E mette in serio imbarazzo le opposizioni quando, come in questo caso, vorrebbero votare le norme contro il femminicidio, ma senza il contorno di norme spurie. Sono stato molti anni all'opposizione e so cosa vuol dire vedersi proporre questi tipi di ricatto: o voti tutto o bocci tutto. Per questo le opposizioni (M5S, Lega e Sel) hanno fatto ostruzionismo alla Camera, ritardando la conversione del decreto, e lo hanno accennato anche al Senato. Poi hanno preferito non partecipare al voto. Il decreto contro il femminicidio è diventato legge. E questa è certamente una buona notizia. Ma al risultato si è arrivati scrivendo l'ennesima brutta pagina di storia parlamentare. E questo francamente ce lo potevamo risparmiare.

 

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