Jun
16
2013
Vicepresidente dei senatori Pd
Pubblicato sul magazine online www.lavalsugana.it

Ancora economia e riforme al centro della scorsa settimana parlamentare. Ma anche la politica estera e di difesa, con l'audizione dei due ministri, Bonino e Mauro, alle competenti commissioni di Camera e Senato: un'audizione resa più drammatica dall'uccisione del 53º militare italiano in missione di pace in Afghanistan, il giovane capitano Giuseppe La Rosa.

 

È stata anche la settimana nella quale sono stato eletto vicepresidente dei senatori del Pd. L'elezione è avvenuta martedì 11. Alle 11 del mattino era convocata l'assemblea del gruppo, con all'ordine del giorno il completamento dell'ufficio di presidenza, la situazione politica e l'attività parlamentare.

 

Il capogruppo, Luigi Zanda, ha introdotto i lavori ricordando che aveva proposto al gruppo di completare la costituzione della presidenza, dopo la formazione del governo e l'elezione delle presidenze delle commissioni. Proponeva pertanto ora di eleggere me, come quarto vicepresidente (casella lasciata vuota), e la collega Daniela Valentini, come segretaria di presidenza, in sostituzione di Roberta Pinotti, nominata sottosegretaria alla Difesa.

 

Zanda ha anche comunicato che l'elezione si sarebbe svolta, sulla base del nostro regolamento, a scrutinio segreto e che i senatori avrebbero potuto votare al pomeriggio, nel seggio allestito presso la segreteria del gruppo. Non sono riuscito a non pensare che, dopo essere stato l'unico senatore del Pd eletto conquistando un difficile collegio uninominale, anziché "nominato" in una lista bloccata, sarei stato anche l'unico vicepresidente votato a scrutinio segreto, posto che tutti gli altri membri della presidenza erano stati eletti per alzata di mano.

 

Lo spoglio viene effettuato alle 8 di sera, finiti i lavori d'aula, martedì (come poi anche mercoledì) dedicati per intero alla discussione e approvazione del decreto legge sulle "emergenze". Con 70 voti su 74 votanti (108 aventi diritto), sono eletto vicepresidente.

 

Passando al secondo punto all'ordine del giorno dell'assemblea, Zanda riferisce di aver partecipato poco prima alla riunione della cosiddetta "cabina di regia", composta da Letta e Alfano e dai capigruppo della maggioranza. L'intenzione del governo è di presentare (probabilmente per decreto) un pacchetto di misure urgenti per la crescita, all'indomani del vertice quadrangolare di Roma (Italia, Germania, Francia e Spagna) sulla disoccupazione giovanile, previsto per venerdì 14, e alla vigilia del prossimo Consiglio europeo, convocato a Bruxelles il 27-28 giugno. Nel frattempo, il governo è alle prese con Ie due grosse gatte da pelare dell'aumento dell'Iva e della riforma dell'Imu.

 

Intervengo per ripetere, ancora una volta, le mie due radicate convinzioni. La prima riguarda il nostro rapporto con l'Europa. Sia per ragioni di interesse nazionale, che per ragioni di visione europea, a mio modo di vedere noi non dobbiamo chiedere, più o meno "battendo i pugni sul tavolo", come vorrebbero Berlusconi e Brunetta, sconti e deroghe rispetto agli obiettivi di disciplina fiscale. Le deroghe non sono solo difficili da ottenere: hanno anche un prezzo salato, perché significano altro debito, da finanziare a tassi d'interesse assai più onerosi di quelli tedeschi (i quasi 3 punti del famoso spread). Per di più, la logica delle deroghe agisce come una forza centrifuga, allontanando tra loro i paesi europei: l'esatto contrario dell'integrazione politica negli Stati Uniti d'Europa.

 

Invece di chiedere deroghe, noi dobbiamo perseguire con tutta la determinazione possibile l'obiettivo del risanamento finanziario e delle riforme per la competitività. Forti di questa riconquistata credibilità, dobbiamo chiedere all'Europa di dotarsi di strumenti federali per il sostegno di politiche espansive (tipo Project-Bond), finanziando grandi investimenti nelle infrastrutture, nella ricerca, nell'innovazione, in particolare nei paesi a più alto rischio di recessione, come l'Italia. In questo modo, avremmo investimenti a tassi europei. E favoriremmo la creazione di un Tesoro europeo, di una politica economica europea, in definitiva di un vero "New Deal" europeo, leva per la ripresa economica, la crescita e l'occupazione, ma anche per un grande balzo in avanti nell'integrazione politica.

 

La mia seconda, radicata convinzione riguarda il dibattito sulle tasse. Penso che l'ordine di priorità che un centrodestra disperato sta cercando di imporre al governo sia una follia. La priorità non è la cancellazione dell'Imu prima casa e neppure, come dicono anche molti dei nostri, evitare l'aumento programmato di un punto di Iva. Tutte le statistiche europee ci dicono che l'anomalia fiscale italiana non riguarda né la pressione sul patrimonio, né quella sui consumi, entrambe nella o sotto la media, ma piuttosto quella sul lavoro e sull'impresa, clamorosamente più alte. È dunque lì che vanno concentrati gli sforzi: nell'abbattimento dell'Irap e nella riduzione dell'Irpef. Utilizzando a questo fine tutti i proventi della lotta all'evasione e rilanciando in grande stile la Spending Review, la revisione della spesa, sulla base della relazione che l'ex ministro Giarda ha lasciato in eredità al nuovo governo.

 

Mercoledì sera, come gruppo Pd, abbiamo incontrato il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ha sostenuto questa posizione: primo, ridurre le tasse su lavoro e impresa. La stessa cosa ha detto Raffaele Bonanni al Congresso della CISL. Il neo-ministro dell'Industria, Flavio Zanonato, si è preso i fischi dei commercianti per aver espresso analoga opinione. E sulla stessa linea, anche se con qualche cautela diplomatica, si è espresso, giovedì pomeriggio in Senato, il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni.

 

Mi pare di capire che anche Letta la pensi come il suo ministro dell'Economia: nessun taglio di tasse in deficit, le riduzioni di pressione fiscale vanno coperti con tagli di spesa. E comunque, lavoro e impresa vengono prima di Imu e Iva: come ha scritto con assoluta chiarezza la Commissione europea nelle sue raccomandazioni all'Italia.

 

Mercoledì pomeriggio, nella Sala del Mappamondo della Camera, le quattro commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato hanno incontrato i ministri Bonino e Mauro, per fare il punto periodico (il primo del governo Letta) sulle nostre missioni di pace all'estero: diverse migliaia di uomini (e donne), un miliardo di euro l'anno di spesa, con un trend in riduzione, ormai da qualche anno. Un miliardo è una bella cifra, ma è comunque poco più dell'1 per mille della spesa pubblica del paese (800 miliardi).

 

Gli occhi del Parlamento, come dell'opinione pubblica, sono puntati su due teatri in particolare. Il Libano, dove i nostri "caschi blu" mantengono la tregua tra Israele e i miliziani di Hezbollah, a pochi chilometri dal confine con la Siria, il paese in questo momento più insanguinato del Medio Oriente.

 

E poi l'Afghanistan, una missione che ha da tempo avviato le operazioni di ritiro, che saranno completate entro il 2014. A Farah, sabato 8 giugno, è morto il 53º militare italiano, Giuseppe La Rosa: un capitano appena trentenne, che per salvare la vita ai suoi soldati pare si sia buttato contro la granata lanciata dentro il mezzo blindato italiano da un combattente talebano.

 

Chiedo alla Bonino se, a più di dieci anni di distanza, i risultati in termini di stabilizzazione e di evoluzione dell'Afghanistan, possano non dirò giustificare, ma almeno dare un senso a questo stillicidio di giovani vite spezzate. Emma è categorica: sia sul piano della stabilità e della sicurezza, sia su quello del rispetto dei diritti umani e dello sviluppo economico e sociale, l'Afghanistan di oggi è un altro paese, rispetto a quello che lei aveva visto in pieno regime talebano, o anche all'indomani immediato dell'intervento. Aggiunge che bisogna saper avere pazienza: nei Balcani ci sono voluti vent'anni per passare dai massacri della "pulizia etnica" all'ingresso in Europa. E l'ex-Jugoslavia non era l'Afghanistan.

 

Sono grato alla ministra di questa risposta. Penso che la perdita di 53 vite in dieci anni sia un bilancio terribile, ma che non ha nulla a che vedere con la guerra. Le nostra è e resta un'operazione di polizia internazionale: perché non andiamo lì ad occupare, ma a difendere e ad assistere un governo legittimo e in qualche modo democraticamente legittimato; perché lo facciamo autorizzati da esplicite risoluzioni dell'Onu, quindi pienamente dentro l'alveo del diritto internazionale; perché i nostri soldati si comportano da agenti di polizia (uso misurato e proporzionato della forza, al servizio della legge, a fianco dell'esercito e della polizia afghani) e non da invasori che esercitano la violenza contro il popolo e lo Stato del paese "nemico".

 

Giovedì mattina, in aula, si è votata la procedura d'urgenza, chiesta dal Governo, per il disegno di legge costituzionale sulla procedura delle riforme. Ne ho tratto conferma della mia idea sulla pericolosità, per le riforme, di un procedimento così barocco. Non solo i grillini e i vendoliani hanno gridato al colpo di mano (se non di Stato), perfino Schifani, a nome del gruppo Pdl, ha definito inopportuna la procedura d'urgenza, pur annunciando il voto favorevole "per disciplina di maggioranza".

 

Continuo a non capire il senso di impiegare sei mesi a parlare di procedure, invece di entrare subito nel merito. Anche perché, sulle riforme costituzionali, le posizioni tra i tre partiti di maggioranza sono ormai davvero molto ravvicinate. L'ultima prova di ciò viene da un documento di area "bersaniana", molto lontano dalle posizioni "riformiste" sia sulla politica economica che sulla forma-partito, ma invece nettamente a favore del semi-presidenzialismo sul piano costituzionale. E dunque? Perché non andare subito "a vedere"? Misteri della politica italiana. Comunque, la procedura d'urgenza passa a larga maggioranza.

 

 

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