Sep
05
2012
L'Italia dei democratici
L'anticipazione del saggio di Enrico Morando e Giorgio Tonini

Come ha detto giustamen­te Mario Monti, il più grande e gravoso dei co­sti della politica è quello di cui si parla meno. Non sono i privilegi della ca­sta, che pure vanno rimossi senza timi­dezze, o le spese per i palazzi delle istitu­zioni, che vanno adeguati senza indugio agli standard europei. Il vero costo della politica è il prezzo delle mancate decisio­ni, della fuga stile Savoia dalla verità sui problemi e dalla responsabilità di pro­porre le relative soluzioni, anche scon­tando un'immediata impopolarità.

Del resto, se si pensa che quello di cui c'è bisogno, in fondo, è qualche aggiu­stamento, robusto sì, ma niente di più, si fa presto a concludere che ciò che dav­vero conta e fa la differenza, per il pae­se, non è cosa si deve fare, ma chi si sie­de nella stanza dei bottoni. Se ci saremo noi, cioè tutti quelli che sono uniti dalla volontà di impedire che ci siano loro, le intese sul da farsi le troveremo, senza bisogno di stare ora a discutere (e a divi­derci) su ogni scelta: una bella mediazio­ne verbale tra posizioni che restano di­verse e spesso in contrasto fra loro (ri­cordate le 286 pagine del programma dell'Unione?) e via alla campagna eletto­rale.

Può perfino succedere che ci si divida e ci si contrapponga, nel centrosinistra, sul governo Monti e sul suo tentativo estremo di salvare il paese dal default e l'Europa dalla dissoluzione: tra quanti, come il Partito democratico, lo sostengo­no in modo impegnato e responsabile e quanti vi si oppongono, come Italia dei Valori o Sinistra e Libertà, in modo du­ro, aspro, radicale. E che ci siano ancora quanti, da ambo le parti, pensano che possa trattarsi di una parentesi, chiusa la quale si possa tornare a costruire un'alleanza per vincere.

Ma vincere cosa? Certo non il gover­no del paese, posto che con simili pre­messe è evidente che non si saprebbe co­sa farsene. Come si potrebbe governare senza idee chiare e convergenti, non sui dettagli, ma sui fondamenti della politi­ca economica, di quella europea, di quel­la estera? L'esperienza dell'Unione (2006-2008) ha dimostrato che non è possibile.

La storia di questi anni ci ha detto che non è per questa via, la via delle alleanze ambigue sul piano della cultura politica e reticenti sul piano programmatico, che si costruisce l'Italia dei democratici. Perché nessuno dei problemi «di siste­ma», che rischiano di portare il paese al disastro, può essere affrontato se non at­traverso un profondo cambiamento del­lo stato attuale delle cose. E nessun go­verno sarà in grado di realizzarlo, il cam­biamento necessario, se non avrà chie­sto e ottenuto dalla maggioranza degli elettori un preciso mandato a farlo, sulla base di un discorso di verità, proposto al paese prima e non dopo le elezioni.

Per la banale ragione che il possente intrico di interessi mobilitati nella difesa dello status quo sarà sempre in grado di prevalere se i riformisti al governo non potranno usare, per piegare la reazione dei conservatori, la forza di un esplicito mandato, richiesto agli elettori e da loro conferito.

Neppure questo basterà. Dovrà esse­re chiaro, nel dialogo di verità tra i demo­cratici e gli elettori, che il cambiamento di cui il paese ha bisogno può essere rea­lizzato solo nel corso di un ciclo di gover­no che abbracci almeno due legislature: un vero ciclo riformista, come quelli che hanno cambiato tutti i paesi europei e che l'Italia invece non ha mai conosciu­to. Proprio per questo, per il carattere radicale, unitario e di lungo periodo del cambiamento necessario, il progetto dei democratici deve essere ben definito fin dall'inizio e la sua trasformazione in atti di governo deve cominciare dal primo giorno della prima legislatura.

Ci duole ammetterlo, ma non ci pare che al momento il centrosinistra e lo stesso Pd dispongano di un progetto del genere e siano in grado di comunicarlo al paese. Altrimenti non ci saremmo tro­vati e non ci troveremmo nella strana condizione per cui il fallimento del go­verno Berlusconi si è tradotto in una ca­duta verticale di credibilità della politica nel suo insieme e non, come sarebbe sta­to naturale aspettarsi, del solo centrode­stra. Altrimenti non avremmo assistito e non assisteremmo al curioso e inedito fenomeno per cui la caduta di consenso del centrodestra sta ingrossando ormai da anni le fila dell'astensione o delle for­ze populiste, più o meno antisistema, mentre nemmeno uno di quei voti si è finora spostato verso il centrosinistra e verso il Partito democratico.

A noi parrebbe che di paradossi come questi varrebbe la pena parlare, ragiona­re, discutere. E invece il centrosinistra, e il Pd in particolare, ormai da anni vivo­no col fiato sospeso, come se un qualsia­si accenno di vera discussione interna potesse spezzare l'incantesimo della cri­si del berlusconismo e di una possibile vittoria del centrosinistra, ottenuta per abbandono del campo da parte dell'av­versario.

Noi pensiamo che non si possa co­struire nulla di solido su fondamenta tan­to fragili. Non si costruisce, come abbia­mo detto fin qui, sulla reticenza pro­grammatica, sul primato della conve­nienza tattica sul merito strategico, una prospettiva di governo che si proponga non di galleggiare sui problemi del pae­se, ma di affrontarli con lucidità, rigore, determinazione adeguati alla gravità del passaggio storico che l'Italia sta vi­vendo.

Ma non si costruisce nemmeno un partito, quanto meno un partito «demo­cratico», sull'identificazione tra discus­sione politica interna e attentato all'uni­tà del partito stesso, tanto più riprovevo­le in quanto farebbe «il gioco dell'avver­sario».

Se ci siamo decisi a raccogliere in que­ste pagine alcune «idee per un manife­sto riformista» è perché pensiamo che mai come oggi ci sia bisogno di un Parti­to democratico che coltivi ed esprima quella che a noi da sempre piace chiama­re la sua «vocazione maggioritaria». Che non è una presuntuosa pretesa di autosufficienza, né il banale auspicio di diventare maggioranza, ma lo sforzo di parlare a tutto il paese (e non solo alla parte tradizionalmente orientata a sinistra), a partire da una lettura realistica e spregiudicata delle sfide che esso ha dinnanzi a sé alla ricerca aperta e curiosa, pragmatica, delle vie per affrontarle nel modo migliore: naturalmente, sulla base dei nostri ideali, gli ideali dei democratici, a cominciare da quello dell'uguaglianza.

Noi pensiamo che solo per questa via il Pd potrà ampliare i suoi consensi, diventare il primo partito italiano, per vir­tù propria e non per abbandono degli av­versari, e proporsi quindi come il moto­re di un governo capace di rimuovere gli ostacoli che oggi bloccano lo sviluppo del paese: una disuguaglianza troppo grande, una crescita troppo lenta, un de­bito pubblico troppo pesante.

1 commenti all'articolo - torna indietro
inviato da vincenzo calì il 09 November 2012 19:39
a pag. 212 del vostro libro leggo: "un congresso prima delle politiche del 2013 aiuterebbe il PD a vincerle, quelle elezioni". Bene: le primarie in corso,che prendono vigore proprio grazie al confronto interno al PD, mi pare permettano di raggiungere il risultato. Non sarà un congresso ma....ci si avvicina:

(verrà moderato):

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