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Se la politica riapre i cantieri della speranza

Intervento a Pro Civitate Cristiana Assisi, 22-26 agosto 2004


1. La speranza alla quale vorremmo aprire un varco è la speranza temporale più grande, quella di liberare l'uomo dalla violenza, dalla guerra, dall'odio, per aprirgli la via della pace. Avete posto questo 62° Corso di studi cristiani all'insegna delle parole del profeta Michea: "Alla fine dei giorni / il monte del tempio del Signore / resterà saldo sulla cima dei monti / e s'innalzerà sopra i colli / e affluiranno ad esso i popoli; / verranno molte genti e diranno: / "Venite, saliamo al monte del Signore / e al tempio del Dio di Giacobbe / egli ci indicherà le sue vie / e noi cammineremo sui suoi sentieri", / poiché da Sion uscirà la legge / e da Gerusalemme la parola del Signore. / Egli sarà arbitro tra molti popoli / e pronunzierà sentenza fra numerose nazioni; / dalle loro spade forgeranno vomeri, / dalle loro lame, falci. / Nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione / e non impareranno più l'arte della guerra". (Michea, 4, 1-3) Che cosa ha a che fare la politica con questa grande speranza? Il profeta vede i popoli della terra convergere attorno ad un'unica autorità, il Signore, arbitro tra le nazioni. Nessun popolo dovrà quindi più combattere per far valere i propri diritti o le proprie ragioni. Sarà il Signore stesso custode della pace. Per questo le nazioni potranno dimenticare la guerra. E' un disegno politico, perfino istituzionale: una grande riforma istituzionale globale. Ma Michea dice che tutto ciò avverrà "alla fine dei giorni". Dobbiamo dunque collocare la speranza della pace, del tutto "oltre" la storia? Nel regno dell'utopia e perfino dell'ucronia? E quindi, certamente, al di là della portata della politica?

2. Se dobbiamo stare alla corrente dominante del pensiero occidentale moderno, non ci sono dubbi. La pace è fuori della portata della politica, che è invece strettamente imparentata con la guerra. Anzi, è proprio la politica a fare della guerra una "cosa seria", verrebbe da dire una faccenda da uomini e non un gioco da ragazzi. Come scriveva quasi duecento anni fa Karl von Clausewitz, in un'opera, "Sulla guerra", che ancora oggi è studiata in tutte le accademie militari, "la guerra non è il puro gusto di azzardare e vincere, non è frutto di una libera ispirazione; è un serio mezzo per un serio scopo; la vivacità dei colori che la fortuna le conferisce, l'ondeggiare delle passioni, del coraggio, della fantasia, dell'entusiasmo, ne sono particolarità, non ne costituiscono l'essenziale. La guerra di una comunità, di interi popoli, e particolarmente di popoli civili, deriva sempre da una situazione politica, è sempre causata da un motivo politico. E' dunque un atto politico... un vero istrumento politico, una prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi... La guerra, per quanto possa fortemente reagire nei singoli casi sui disegni politici, non va considerata altrimenti che come una loro modificazione, perché l'intento politico è il fine e la guerra non è che il mezzo e non si può pensare il mezzo scisso dal fine".

3. Clausewitz è in buona compagnia e vanta illustri maestri. A cominciare da Thomas Hobbes, insieme al Machiavelli padre del moderno pensiero politico. Per Hobbes (cfr. la sua opera principale, il "Leviatano" del 1651) è la guerra la "condizione naturale" dell'umanità, perché nello stato di natura, "l'uomo è lupo per l'altro uomo". In questa condizione, l'unica legge è il "diritto di natura", ossia "la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua vita". In altre parole, sempre di Hobbes, "Quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell' atto di combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata...Ogni altro tempo è pace". La pace, secondo Hobbes, è quindi soltanto un intermezzo della guerra, a sua volta frutto velenoso della "anarchia", ovvero della "condizione di mera natura, cioè a dire di assoluta libertà, quale è quella di coloro che non sono né sovrani né sudditi". Rimedio all'anarchia e alla guerra è per Hobbes lo Stato, sovrano e assoluto, al quale tutti gli uomini cedono per intero e irreversibilmente la loro libertà, in cambio della sicurezza. Alla guerra, succede così la pace, ma solo all'interno di ogni Stato. Non c'è invece alcun rimedio all'anarchia - e quindi alla guerra - nei rapporti tra gli Stati. "Ogni sovrano - scrive Hobbes - ha nella ricerca della sicurezza del proprio popolo lo stesso diritto di cui può disporre ogni individuo nel garantire la sicurezza del proprio corpo. La stessa legge che detta agli uomini fuori di ogni governo civile cosa debbano fare e cosa debbano evitare nei loro rapporti reciproci, detta le medesime cose agli Stati". Allo "homo homini lupus" c'è quindi lo Stato come rimedio, ma, fino "alla fine dei giorni", potremmo dire fino a quando non si avvererà la profezia di Michea e il Signore sarà arbitro tra le nazioni, ogni Stato sarà lupo per l'altro Stato: "inerisce alla sovranità - scrive ancora Hobbes - il diritto di fare la guerra e la pace con le altre nazioni e gli altri Stati, vale a dire di giudicare quando l'una o l'altra convenga al bene pubblico".

4. La concezione hobbesiana delle relazioni internazionali è ancora quella prevalente e dominante nel pensiero contemporaneo. Sia tra gli studiosi, che tra i politici e i diplomatici, la corrente di pensiero preponderante è ancora quella cosiddetta "realista", che considera indiscutibili i due capisaldi del pensiero di Hobbes: la sovranità dello Stato e l'anarchia nelle relazioni tra gli Stati. Ciò non significa che non sia presente nella storia del pensiero occidentale, moderno e contemporaneo, un'altra corrente di pensiero. E' la corrente che i suoi detrattori, i "realisti", definiscono, per squalificarla, "idealista" e che i suoi sostenitori preferiscono definire "liberale". Potremmo definirla la "corrente calda" del pensiero occidentale, accanto e in contrasto a quella fredda del realismo hobbesiano. L'iniziatore di quest'altra prospettiva è Immanuel Kant, autore di un fortunato libretto, pubblicato nel 1795, dal titolo di "Progetto filosofico per la pace perpetua". Come Hobbes (e come Michea), anche Kant riconosce che "lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale, il quale è piuttosto uno stato di guerra". Lo stato di pace "deve venire istituito; poiché l'assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall'altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo come un nemico". A differenza di Hobbes, tuttavia, Kant ritiene che il passaggio dallo stato di natura (e dunque di guerra) a quello di legalità (e dunque di pace) possa avvenire non solo tra gli uomini nello Stato, ma anche tra gli Stati, gli uni in rapporto agli altri. A tre precise condizioni.

4.1. La prima condizione è che "in ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana". Per Kant, una costituzione repubblicana è una costituzione non dispotica, noi diremmo liberaldemocratica, ossia fondata sul primato della legge e non sul potere assoluto del sovrano come in Hobbes. "La costituzione repubblicana - scrive Kant - oltre alla limpidezza della sua origine, il suo essere scaturita dalla pura sorgente dell'idea di diritto, ha anche la prospettiva di quell'esito desiderato, la pace perpetua. E la ragione è la seguente. Se per decidere se debba esserci o no la guerra viene richiesto il consenso dei cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo decidere di subire loro stessi tutte le calamità della guerra... rifletteranno molto prima di iniziare un gioco così brutto. Al contrario, invece, in una costituzione in cui il suddito non sia cittadino, quindi una costituzione non repubblicana, decidere la guerra è la cosa sulla quale si riflette di meno al mondo, poiché il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello Stato". Questa tesi di Kant ha suscitato un'ampia discussione sul carattere pacifico della democrazia. Ma è vero che le democrazie sono più pacifiche delle dittature? Due secoli dopo Kant, siamo meno ottimisti di lui. E tuttavia, non c'è dubbio che la tesi kantiana abbia un fondamento di verità. Un regime, come quello liberaldemocratico, che debba fare i conti con il consenso dei cittadini, ha quanto meno più vincoli, più remore, più contrappesi, più anticorpi.

4.2. Il carattere "repubblicano" dello Stato non è del resto l'unica condizione che Kant considera necessaria in vista di una "pace perpetua". La seconda condizione è che "il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati". Kant si propone qui di forzare il principio hobbesiano dell'insuperabilità dell'anarchia nei rapporti tra Stati sovrani e dunque della guerra come unico tribunale al quale ricorrere in caso di conflitto. "La ragione - scrive Kant - dall'alto del trono del supremo potere che dà le leggi morali, condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico e fa invece dello stato di pace un dovere immediato, che però senza un patto reciproco tra gli Stati non può essere fondato o garantito: così deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare, che si può chiamare federazione di pace... Non è cosa impossibile immaginarci la realizzabilità di questa idea di federazione, che si deve estendere progressivamente a tutti gli Stati e che conduce così alla pace perpetua. Infatti quando la fortuna disporrà che un popolo potente e illuminato possa darsi forma di repubblica (che per sua natura non può non avere un'inclinazione verso la pace perpetua), questa allora costituirà un punto determinante dell'unione federativa perché gli altri Stati si uniscano ad essa, per garantire così la condizione di libertà degli Stati, in conformità al diritto internazionale, ed estendersi sempre più attraverso altre unioni dello stesso tipo." Il disegno kantiano comincia dunque a prendere forma. Perché possa essere "istituita" la pace, non solo è necessario che gli Stati diventino democratici, ma anche che si federino tra di loro, se non in una "repubblica universale", almeno, in prima approssimazione, in una "alleanza contro la guerra".

4.3. Terzo tassello: "Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell'ospitalità universale". "Ospitalità - chiarisce Kant - significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro... In questo modo parti del mondo lontane possono pacificamente entrare in rapporti reciproci che alla fine diventano pubblicamente legali, avvicinando così sempre di più il genere umano verso una costituzione civile universale". E invece, osserva Kant, "se a ciò si confronta la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l'ingiustizia, di cui essi danno prova visitando paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista), è tale da rimanere inorriditi... e a fare questo sono proprio gli Stati che fanno grande mostra della loro religiosità e, mentre per loro l'ingiustizia è facile come bere un bicchiere d'acqua, vogliono essere considerati come gli eletti dell'ortodossia". Kant condanna senza appello questa linea di condotta, non solo per la sua bassezza morale, ma anche per la sua miopia: "Poiché con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti, allora l'idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale verso il diritto pubblico dell'umanità, e quindi verso la pace perpetua, e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa."

5. A differenza della "corrente fredda", scaturita da Hobbes, attestata sulla difesa, in nome del realismo, del binomio sovranità-anarchia, la corrente calda, originata dalla riflessione kantiana, ha avanzato un paradigma alternativo, fondato sul trinomio democrazia-sovranazionalità-diritti umani: un trinomio per il quale il processo di democratizzazione degli Stati nazionali deve completarsi e in qualche modo sfociare nel loro incontrarsi in sedi multilaterali di concertazione e nella promozione e diffusione universalistica dei diritti dell'uomo, ivi compresi i diritti sociali, i diritti ad un equo accesso ai beni della terra e alle opportunità di sviluppo. Assai popolare negli anni della grande Rivoluzione francese, le tesi kantiane tornarono ad essere considerate utopismo idealistico per tutto il XIX secolo, il secolo nel corso del quale la concezione patrimoniale della sovranità ha progressivamente ceduto spazio a quella nazionalista, se possibile ancor più lontana dall'ideale illuministico della pace perpetua. Non a caso G.W.F. Hegel, nei suoi "Lineamenti di filosofia del diritto" (1821), torna a Hobbes contro Kant: "La concezione kantiana di una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissenzione e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l'umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura; in generale, sempre da una volontà sovrana particolare e quindi resta affetta da accidentalità. Quindi, il conflitto tra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può esser deciso solo dalla guerra".

6. Quanto la visione hegeliana si sia rivelata "realistica" ce lo dicono i milioni di vite umane falciate dalle guerre che hanno insanguinato l'Europa tra Otto e Novecento. Guerre, ebbe a dire Alcide De Gasperi mezzo secolo fa, parlando in Senato il 1 aprile del 1952, "che in un mondo così strettamente legato ed interdipendente, quale è quello moderno, erano ormai divenute vere e proprie guerre civili". Le guerre mondiali come guerre civili europee. Questa connotazione, di guerre "civili", rovescia la profezia hegeliana, proprio mentre le guerre come tali sembrerebbero confermarla, e rilancia invece l'attualità del paradigma kantiano. Il mondo si è fatto "legato e interdipendente", dice kantianamente De Gasperi. Dunque, le guerre tra stati sovrani in un contesto di anarchia si sono trasformate al punto da assomigliare terribilmente a guerre civili, a quello stato di natura che precede la necessaria instaurazione della statualità. Non a caso, De Gasperi definisce "guerre civili" europee le guerre mondiali, in un discorso nel quale chiede al Senato di sostenere il progetto suo, di Schuman e di Adenauer di una "Comunità europea di difesa". Un progetto, spiega De Gasperi, che "dalla primitiva ricerca di mezzi per rafforzare la difesa dell'Occidente, è venuto a poco a poco delineando un obiettivo ben più ampio: la realizzazione dell'unità europea". "Siamo convinti, infatti, che non è ormai più possibile che gli Stati, singolarmente, possano dare ai propri popoli quella sicurezza e quel tenore di vita cui essi hanno diritto. Soltanto l'Europa, nella riunione delle singole forze, risorse e capacità, potrà dare alle sue popolazioni la speranza di una vita migliore".

7. Mezzo secolo dopo De Gasperi, la Comunità europea di difesa è morta prima di nascere, ma l'Europa ha "federato", o almeno "confederato", 25 Paesi: dal Baltico al Mediterraneo, dall'Atlantico ai confini con la Russia. E molti altri sono in lista d'attesa: in Europa orientale, nei Balcani, al confine col mondo arabo come nel caso della Turchia, la più grande democrazia in un contesto islamico. In una recente intervista a Giuseppe Tognon, il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, dice che "la riconciliazione e la pace sono la storia e il fondamento stesso dell'Europa. L'Unione si basa sui valori comuni di democrazia, stato di diritto, rispetto per l'identità di ciascuno e i diritti delle minoranze e sul comune desiderio di pace e di stabilità. Il suo obiettivo principale è sempre stato salvaguardare la pace in Europa e lavorare per la stabilità in un mondo esposto a guerre e discordie". E' l'Europa, dunque, quella federazione di Stati democratici che Kant vagheggiava due secoli fa, inseguendo il sogno di una "pace perpetua"? Qualcosa del genere si legge tra le righe del pensiero di Prodi. Ma c'è anche chi lo afferma polemicamente, per esempio al di là dell'Atlantico. E' il caso di Robert Kagan, uno dei più brillanti esponenti di quel circolo "neoconservatore" che tanta influenza ha esercitato sull'attuale Amministrazione Bush. "E' ora di smettere - ha scritto Kagan l'anno scorso, nel suo fortunato pamphlet "Paradiso e potere" - di far finta di credere che gli europei e gli americani vedano lo stesso mondo... Su una questione essenziale, quella del potere... le prospettive americane e quelle europee divergono. L'Europa sta voltando le spalle al potere, o, se si preferisce, sta andando oltre il potere verso un mondo autonomo di leggi e regole, di negoziati e cooperazione transnazionale. Sta entrando in un paradiso post storico di pace e relativo benessere: la realizzazione della "pace perpetua" di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e la vera sicurezza, la difesa e l'affermazione dell'ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall'uso della forza". Dunque, la parabola del pensiero occidentale ha prodotto una biforcazione: l'Europa con Kant (che del resto era un tedesco) e l'America con Hobbes (che era pur sempre un inglese)? Ma che razza non dico di mondo, ma anche solo di Occidente, è questa bestia per metà Leviatano e per metà "pace perpetua"? E' in questo groviglio che dobbiamo cercare un varco per le nostre speranze?

8. La risposta è no. Né l'Europa, né l'America attuali sembrano in grado di proporsi come varco percorribile per le speranze del mondo. L'incertezza americana è attestata dal carattere hobbesiano sì, ma confusamente hobbesiano, della sua politica di potenza: una politica che teorizza, kantianamente, che solo la diffusione della democrazia può portare la pace nel mondo, ma pensa al tempo stesso che la democrazia si possa diffondere con l'hobbesiana politica di potenza: kantiani nei fini, hobbesiani nei mezzi? D'altra parte, come iscrivere senza riserve l'Europa nel segno di Kant, quando essa, per un verso dipende dall'hobbesismo americano e per altro verso, in aperta violazione del terzo principio della "pace perpetua", quello della cittadinanza cosmopolita, resiste in una linea di chiusura delle sue frontiere non solo alle persone del Sud del mondo, ma alle loro stesse produzioni? Difficile sfuggire alla sensazione che sia l'America che l'Europa debbano ancora elaborare una visione più matura, o forse (come dice Luigi Bonanate) un "paradigma" nuovo, per la comprensione e il governo di un mondo sempre più complesso. In un'opera di pochi anni fa (la traduzione italiana è del 1999, "La costellazione postnazionale"), Juergen Habermas richiama la necessità, dinanzi all'esplodere dell'interdipendenza e della globalizzazione, di andare oltre il paradigma che oppone politica interna (ai singoli Stati), a politica internazionale (tra gli Stati), per abbracciare il concetto di "politica interna del mondo": "essa - scrive Habermas - non si presenta staticamente come politica gerarchizzata nel quadro di un'organizzazione mondiale, bensì dinamicamente come un insieme di interferenze e interazioni tra processi politici che seguono logiche specifiche sul piano nazionale, internazionale e globale... In tal modo vediamo aprirsi quanto meno una prospettiva per una politica interna mondiale".

9. Unipolarismo, multilateralismo, protagonismo civile globale, sono i tre pilastri di una possibile strategia per la costruzione di una politica interna del mondo. L'unipola-rismo, ossia la schiacciante superiorità militare Usa, può essere utilizzato (o contrastato) restando all'interno del vecchio paradigma anarchia-sovranità, o invece messo al servizio di una politica interna del mondo che conosce ormai solo forme di violenza "interne", guerre civili, terrorismo, criminalità. Lo stesso dicasi del multilateralismo: può essere invocato in chiave multipolare (astratta e per di più non auspicabile, troppo hobbesiana), o invece favorito come luogo nel quale cercare non di abbattere, né di contrastare in un gioco di veti paralizzanti, ma di "costituzionalizzare" la monarchia unipolare americana. A sua volta, la società civile globale ha dinanzi a sé la sfida ad andare oltre l'antagonismo subalterno al sovrano, per aprire spazi di protagonismo a livello di politica interna del mondo. Una politica interna del mondo, che faccia leva sulle potenzialità dell'unipolarismo, del multilateralismo, del protagonismo civile globale, implica una solidarietà forte (e perciò aperta) tra le democrazie, una kantiana "federazione delle democrazie per la pace". Come scriveva Emmanuel Mounier alla vigilia dell'aggressione nazista alla Francia ("I cristiani e la pace", 1939), "In un mondo dove alcuni vogliono la guerra, o alcuni non escludono di ricorrervi, il rifiutarsi a qualsiasi azione significa rifiutarsi a qualsiasi resistenza".

10. Mounier ci aiuta così a sciogliere il dubbio dal quale siamo partiti: quell' espressione "alla fine dei giorni" che sembra ricacciare nel regno dell'utopia la profezia di Michea. Il fatto che la pienezza della pace possa essere raggiunta solo oltre la storia, non condanna la storia stessa a vivere un'eterna ripetizione dell'identico bellicista. Nella storia gli uomini progrediscono, imparando dai loro errori: anche nella direzione della pace. Contro ogni impazienza "pacifista", Mounier richiama "la vocazione terrena del cristiano, l'umiltà che è il senso della terra, una pazienza con la storia che è la stessa inesauribile pazienza di Dio".