interventi

Oltre la libertà di coscienza. Le questioni eticamente sensibili

Relazione introduttiva all'Assemblea Annuale di libertàEguale Orvieto, 30 settembre 2005

1. Dal “Rapporto di ricerca” che ci ha illustrato Renato Mannheimer, emerge un dato fondamentale, a mio avviso particolarmente significativo sul piano politico. Le opinioni degli italiani sulle questioni eticamente sensibili sono varie, frastagliate, ma tutt’altro che polarizzate. È vero: l’indice sintetico che Mannheimer ci ha proposto all’inizio della sua illustrazione vede una perfetta divisione in due del campione, tra un 50 per cento riconducibile ad un atteggiamento generale di “chiusura” ed un altro 50 per cento riconducibile ad un atteggiamento generale di “apertura”. Ma dalla disaggregazione analitica delle risposte, emerge che in entrambi gli schieramenti la parte più consistente del campione si colloca al confine con lo schieramento opposto, ovvero – diremmo in termini politici – verso il centro. E infatti: il 55 per cento del campione si dichiara favorevole ad estendere i diritti delle coppie sposate alle coppie conviventi non sposate, ma la maggioranza relativa (47 per cento) è contraria ad estenderli anche alle coppie omosessuali. Incrociando i due dati risulta quindi che gli assolutamente contrari e gli incondizionatamente favorevoli all’estensione dei diritti delle coppie sposate alle altre forme di convivenza sono soltanto, rispettivamente, il 22 e il 15 per cento, contro il 57 per cento che si colloca in una qualche posizione intermedia. Ugualmente, sulla legge sulla procreazione assistita, il 46 per cento si dichiara favorevole a modifiche limitate, mentre le posizioni “resti così com’è” o “venga radicalmente modificata” si attestano sul 26 e il 16 per cento. Ancora: il 57 per cento del campione difende la 194 così com’è, mentre solo il 23 per cento la vorrebbe più severa e il 17 per cento più permissiva. Perfino sull’eutanasia, il gruppo più consistente (38%) è quello che si dichiara favorevole in alcuni casi estremi, contro rispettivamente il 20 e il 37 per cento di sì e no generalizzati. Eloquente l’atteggiamento in materia di rapporti tra politica e ricerca: 15 per cento favorevoli ad una “tutela” politica della ricerca, 28 di schierati per la “piena libertà” degli scienziati, 50 per cento di “moderati”. E infine: il 49 per cento del campione ritiene opportuno che la Chiesa intervenga nel merito delle scelte legislative, dando però solo indicazioni di carattere generale, contro il 38 per cento che lo ritiene sempre inopportuno e il 10 per cento che auspica un atteggiamento della Chiesa ancor più vincolante. 2. Dai dati che ci ha consegnato Mannheimer credo si possa quindi indurre un primo giudizio politico: sulle questioni eticamente sensibili l’Italia non è un paese diviso a metà: tra oscurantisti e libertari, o tra laicisti e clericali. L’Italia è un paese alla ricerca di soluzioni “ragionevoli”, nell’accezione che Rawls propone del termine “reasonable”: ovvero – potremmo tradurre sommariamente – “dialogiche-inclusive”; il che non significa, naturalmente, che le posizioni estreme non siano “razionali”, ma che per l’appunto non sono “ragionevoli” perché né dialogiche né inclusive, ma conflittuali ed esclusivo-escludenti. Nella lunga, non conclusa vicenda della legge sulla procreazione medicalmente assistita, abbiamo invano perseguito l’obiettivo di una legge “ragionevole”. In Parlamento è prevalso il desiderio di imporre una razionalità non inclusiva né dialogica, con l’effetto di chiamare una risposta referendaria, in quel contesto inevitabile e perfino doverosa, e che tuttavia una parte consistente del Paese ha avvertito a sua volta come “non ragionevole”. Un fatto paradossale e tuttavia significativo. Tanto più se si considera che, nello scontro referendario, entrambi gli schieramenti cercavano di conquistare la “maggioranza ragionevole” usando argomenti, per l’appunto, “ragionevoli”: se vince il sì – dicevamo noi – si riapre la possibilità di modifiche circoscritte; se vince l’astensione – dicevano molti di loro – resteranno possibili modifiche circoscritte. Uno scontro tra opposte ragionevolezze che la maggioranza ragionevole ha giudicato irrazionale, consegnando alle élites politiche un mandato grosso modo riassumibile così: tornate in Parlamento e mettetevi d’accordo su quelle circoscritte modifiche che entrambi dichiarate di volere e che anche noi riteniamo opportune. E smettetela di utilizzare strumenti conflittuali, come le maggioranze blindate in Parlamento o i referendum, in modo platealmente contraddittorio con l’obiettivo che dichiarate di voler perseguire: la definizione consensuale di una normativa ragionevole per una materia tanto delicata e complessa. Sarebbe bene non ignorare questo orientamento dell’elettorato, non solo nell’auspicabile prosieguo costruttivo della discussione sulla modifica della Legge 40, ma anche sugli altri temi “eticamente sensibili”, a cominciare da quello sulla regolazione delle convivenze di fatto, sul quale si è positivamente aperta una discussione ampia. La società italiana, per come emerge dal sondaggio di Mannheimer, ci dice che, sui temi “eticamente sensibili”, va respinta la tentazione di cavalcare lo scontro tra opposte razionalità: uno scontro che non produce buone leggi e allontana la classe dirigente dal paese. Quel che si deve fare è perseguire la soluzione ragionevole, la mediazione alta, il giusto compromesso. Il sondaggio ci dice non solo che questa strada è praticabile, ma che è quella sulla quale è incamminata una larga maggioranza della società italiana. 3. Non si tratta di riproporre la giaculatoria – alla quale nessuno di noi qui ha mai creduto – della presunta “anomalia” della società italiana. Una società che, al contrario delle grandi democrazie dell’Occidente, potrebbe essere governata soltanto attraverso variazioni sul tema del “connubio”, più o meno casto, al centro. È esattamente l’opposto: una democrazia dell’alternanza matura e non primitiva si esprime proprio nella competizione, tra gli opposti schieramenti, su chi riesce a meglio interpretare e rielaborare la corrente centrale epronda di un Paese. Non a caso, la prevalenza di posizioni “ragionevoli” e non di opposte razionalità, nel campo delle questioni eticamente sensibili, non è affatto una “anomalia” italiana, ma un elemento riscontrabile in molti altri paesi occidentali, a cominciare da quello apparentemente più lontano da noi su questi temi: gli Stati Uniti d’America. Pochi mesi fa, è uscito nelle librerie americane un volumetto che potrebbe essere definito un “pamphlet”, per il carattere provocatorio della tesi che propone, se non fosse corredato da un ricchissimo apparato di analisi demoscopica, frutto di una ponderosa ricerca finanziata dall’Università di Stanford e dalla Hoover Institution. Si tratta del libro di Morris Fiorina, “Culture War? The Myth of a Polarized America”. Fiorina dedica il suo lavoro “alle decine di milioni di ‘mainstream Americans’ che non hanno mai sentito parlare di Guerra culturale”. La tesi di fondo di Fiorina è che sui temi che noi definiamo “eticamente sensibili” gli americani sono sì divisi, ma “closely divided” e non “deeply divided”. Potremmo tradurre che sono divisi in modo ravvicinato e non in modo profondo e radicale. “Siamo closely divided – spiega Fiorina – perché molti di noi sono ambivalenti ed incerti e di conseguenza riluttanti ad assumere una posizione netta a favore di questo o quel partito, o leader politico, o proposta politica. Ci dividiamo equamente alle elezioni o ne rimaniamo del tutto fuori, perché istintivamente cerchiamo il centro, mentre partiti e candidati si attardano alle estreme”. Fiorina cita l’intervento di Pat Buchanan alla Convention Repubblicana del 1992, quando l’esponente della destra populista americana infiammò i militanti del GOP declamando: “ è in atto una guerra di religione in questo paese, una guerra culturale tanto decisiva per ciò che saremo come nazione, quanto lo è stata la Guerra Fredda, perché è una guerra per l’anima dell’America”. La tesi di Buchanan, osserva Fiorina, ha fatto breccia nell’opinione pubblica americana, diventando un refrain riproposto ossessivamente sia dal sistema dei media, che dalla classe dirigente politica, entrambi interessati ad accreditare l’esistenza di due Americhe sull’orlo di una nuova guerra civile. A sostegno di questa tesi vengono utilizzati pseudo-argomenti di fatto: “la probabilità –scrive Fiorina – che un maschio bianco, “gun-toting”, “born-again” del Sud rurale votasse nel 2000 per Al Gore era più o meno altrettanto tenue della probabilità che una femminista, agnostica, professionista del Nord urbano votasse per George W. Bush. Ma pochi si chiedono quanti americani rientrino in categorie così strettamente definite”. “La semplice verità – sostiene Fiorina – è che non c’è nessuna guerra culturale negli Stati Uniti, non infuria alcuna battaglia per l’anima dell’America, almeno una guerra o una battaglia di cui gli americani si siano accorti. Certamente, si possono trovare alcuni guerrieri che si impegnano in rumorose schermaglie. Molti degli attivisti di partito e dei “cause groups” in effetti si odiano tra loro e si considerano combattenti in una guerra. Ma i loro odi e le loro battaglie non coinvolgono la grande massa del popolo americano, che è per la maggior parte moderato nelle sue opinioni e tollerante nei suoi modi. Il grosso della cittadinanza americana si trova più o meno nella posizione di quegli sfortunati cittadini di alcuni paesi del terzo mondo che cercano di restare fuori dal fuoco incrociato prodotto dai guerriglieri maoisti e dagli squadroni della morte che si sparano tra loro”. Insomma, “una classe politica polarizzata fa apparire polarizzata la cittadinanza, ma si tratta, per l’appunto, solo di un’apparenza”. Un’apparenza, un illusione ottica, che Fiorina dissolve con decine di tabelle circa gli orientamenti degli americani sulle questioni “eticamente sensibili”, dalle quali si ricava una lettura della società americana clamorosamente vicina a quella che, della società italiana, ha qui proposto Mannheimer. Una società divisa politicamente, ma tenuta insieme, sul piano sociale e culturale, da un vasto “mainstream” trasversale. 4. Se le cose stanno così, il problema, per gli schieramenti politici, negli USA come da noi, è allora quello di conquistare la fiducia e il consenso del “mainstream” e non quello di mobilitare le minoranze fondamentaliste o radicali. La strategia messa in campo in questi anni dalla cosiddetta “destra dei valori” è dunque tutt’altro che invincibile. Proprio in quanto essa non si propone di conquistare il mainstream, ma di mobilitare la parte estrema della propria metà campo. Il fatto è che la destra ha potuto e può permettersi queste derive estremistiche, perché sa che la sinistra si trova in imbarazzo a muoversi su questo terreno e finisce per dividersi tra quanti rimuovono l’argomento - in nome di un “primato dell’economia” che non di rado sconfina nella teorizzazione paradossale dell’uomo “ad una solo dimensione” - e quanti lo affrontano nella chiave estremistica opposta, che finisce per risultare difensiva e quindi perdente. Non a caso, George W. Bush, che a luglio dello scorso anno era dato per sconfitto perfino dai sondaggisti dell’American Enterprise Institute, il prestigioso think-tank vicino al vice presidente Cheney, negli ultimi mesi di campagna elettorale è riuscito a mobilitare 6 milioni di americani in più del 2000 ed a vanificare i 3 milioni in più portati al voto da Kerry rispetto a Gore. Come ha scritto una conoscitrice profonda della società della politica americane, Lucia Annunziata, “I moral values non hanno esercitato il peso più determinante in queste elezioni e si manifestano dentro un orizzonto in cui prevalgono l’incertezza introdotta dal terrorismo e, di conseguenza, il bisogno di leadership. La questione dei valori va però affrontata. Se non è l’elemento più importante, rimane pur sempre un innegabile indicatore del cambiamento in corso negli USA. Il voto religioso, e cattolico in particolare, ha avuto un ruolo decisivo nella sconfitta di Kerry, che ha perso questa parte fondamentale di voto popolare”. Come è noto, e come altrove spiega la stessa Annunziata, non è stato Kerry da solo a perdere questa componente di elettorato. L’emorragia, il travaso di consensi dall’Asinello all’Elefantino, ha origini assai meno prossime: è dal 1968 che i Democratici perdono voto religioso popolare, all’inizio soprattutto nel Sud. E infatti, Kennedy è stato l’ultimo presidente democratico “bostoniano”. Dopo il ritiro di Johnson e l’avvento di Nixon, i Democratici sono riusciti ad interrompere la lunga serie di presidente repubblicani solo con due figure anomale del Sud: Carter prima e Clinton poi. E neppure Clinton è riuscito ad evitare all’Asinello la perdita della maggioranza al Congresso e da ultimo, con Bush, alla Corte Suprema. Se ciò è avvenuto è perché i Democratici hanno perso nel tempo il radicamento nel “mainstream” americano. Con la sola, parziale ma significativa eccezione dell’era Clinton, hanno visto prevalere al loro interno le componenti radicali e su quel terreno, sul terreno della mobilitazione delle estreme, la destra si è dimostrata nettamente più forte. Non è un caso se il New Labour, che con Tony Blair ha riconquistato una forte presa sul mainstream della società britannica proprio facendo tesoro della lezione di Clinton, si guardi bene oggi dall’abbandonare quella posizione. E non si tratta solo della posizione di Tony Blair. Nel discorso che lo ha riproposto – per l’ennesima volta – come delfino del primo ministro, lunedì scorso alla conferenza di Brighton, Gordon Brown ha gridato tra gli applausi che il Labour è “the voice of the mainstream majority” e che la sua “mission” è quella di costruire un consenso attorno al cambiamento progressista: “non occupando il centro (“centre ground”), ma dominandolo”. E questo, ha aggiunto Brown, sarà possibile, come è stato possibile in questi anni, se il New Labour continuerà, anzi accentuerà, l’enfasi sui “fondamenti etici” (ethical foundation) di ciò che, alla radice, da uno scopo alla nostra vita politica e costruisce fiducia nell’impegno al servizio degli altri: la responsabilità che dobbiamo sentire gli uni per gli altri, insieme alle opportunità che è nostro dovere estendere”. Anche in questo consiste il “miracolo blairiano”: il partito di sinistra che produce sulle questioni eticamente sensibili la legislazione più liberale è anche il partito più “religioso” d’Occidente, il partito che con più determinazione intende proporre alla società che rappresenta una proposta etica, di valori e principi morali, e non solo politica. E anzi: è su quella visione etica, filtrata da una spregiudicata e pragmatica analisi del mutamento sociale, che fonda la sua stessa proposta politica e di governo. 5. L’Italia non è gli Stati Uniti, né la Gran Bretagna. E Berlusconi non è Bush e noi non siamo né Blair né Gordon Brown. E tuttavia, può essere di qualche interesse meditare su queste due grandi esperienze al di qua e al di là dell’atlantico, in un conteso come quello italiano nel quale la destra, in grave deficit di credibilità sul terreno delle politiche economiche e sociali, cerca di riaprire la partita con il centrosinistra anche lanciando la sfida sul terreno dei “valori”. Il tentativo è goffo e confuso, ma non va sottovalutato. Innanzi tutto perché non è vero che gli elettori votino pensando solo al portafoglio. Ci sono strati ampi di elettorato per i quali il voto è ancora espressione di identità non materialistiche; e per i quali la difesa della famiglia, il contrasto della criminalità o dell’immigrazione, per non dire della pace e della guerra, sono issues non meno centrali dell’inflazione o della disoccupazione. In secondo luogo, perché è del tutto evidente che la destra intende imporre un terreno di confronto che ritiene – non a torto, considerata l’esperienza di questi anni – sfavorevole alla sinistra, che sui temi etici tende a sfuggire, a glissare, per non dividersi. E infine, ma non da ultimo, perché la destra cerca in questo modo di appropriarsi di una quota significativa di quell’elettorato marginale, in bilico tra i due schieramenti, che può essere orientato nel voto dal posizionamento relativo delle gerarchie cattoliche. Un posizionamento relativo che è influenzato, come ho avuto modo di approfondire in altra sede (cfr. “la ricerca e la coscienza”, editore Il Riformista), dalla persistente “asimmetria” del magistero, quando tratta di questioni che qui chiamiamo eticamente sensibili e che negli ambienti cattolici si preferisce oggi definire “antropologiche” – quelle che hanno a che vedere con la vita e la morte, la famiglia e la sessualità – rispetto all’impianto metodologico che lo stesso magistero utilizza nell’affrontare le questioni di etica sociale: la pace e la guerra, l’economia e il lavoro. Mentre in quest’ultimo campo, quello dell’etica sociale, in particolare dopo Giovanni XXIII e il Concilio, il magistero ha abbandonato l’approccio cosiddetto “deontologico” – ovvero rigidamente prescrittivo, sulla base di una minuziosa casistica – in favore di un modello “teleologico”, con il quale si limita ad indicare le finalità generali che devono orientare l’azione e lascia alla libera e responsabile valutazione delle coscienze la ricerca dei nessi più idonei a perseguire quei fini, nel campo cosiddetto “antropologico”, quello che tratta la bioetica o l’etica sessuale e familiare, persiste immutato – e anzi semmai accentuato – l’approccio deontologico, questa asimmetria rappresenta un vincolo culturale significativo, che finisce per esporre la Chiesa anche al rischio di trovarsi, suo malgrado, in un posizione non equidistante nell’ambito del bipolarismo politico. E tuttavia, la Chiesa si muove, evolve, anche se talvolta impercettibilmente, influenzata dal cambiamento culturale della società in cui vive. Con la legge sulla procreazione assistita, in effetti, la Chiesa italiana si è mossa. E, nonostante le apparenze, si è mossa in avanti. Al contrario di quanto era avvenuto con divorzio e aborto, quando la Chiesa, in forza del modello deontologico, aveva vietato ai cattolici in Parlamento, ovvero alla DC, di “compromettersi”, sia pur nell’intento di perseguire il “male minore”, con il procedimento legislativo, la responsabilità del quale doveva essere lasciata per intero ai cosiddetti “laici”, nel caso della PMA la Chiesa non solo ha accettato, ma in qualche modo ha esercitato direttamente la mediazione politico-parlamentare, sostenendo esplicitamente e decisamente un testo di legge certamente restrittivo, in qualche aspetto assurdamente repressivo, ma altrettanto certamente non sovrapponibile alla dottrina cattolica ufficiale sull’argomento. Questo indubbio passo in avanti – ovvero l’accettazione della mediazione anche in campo bioetico – è stato per così dire “bilanciato” dalla pretesa, da parte della gerarchia cattolica italiana, di agire in prima persona e direttamente nella mediazione parlamentare, cercando di vincolare i cattolici in parlamento – e poi, col referendum, i cattolici elettori – ad una inedita disciplina, per così dire sulla “mediazione ammissibile” e non più sulla testimonianza di principio. Si tratta, come è evidente, di una posizione intermedia, in sé indifendibile perché instabile e come tale destinata ad aprire necessariamente la strada ad una evoluzione ulteriore: l’inevitabile riconoscimento dell’autonomia laicale nella mediazione, fermo restando il ruolo di orientamento e accompagnamento da parte del magistero. Non sappiamo tuttavia quanto tempo sarà necessario per produrre questa ulteriore evoluzione. Molto dipenderà anche da come saprà muoversi il centrosinistra. Per intanto, dobbiamo fare i conti con una posizione da parte della gerarchia cattolica italiana, che indirettamente la espone, come dicevo, al rischio di trovarsi schierata, suo malgrado, con uno dei due poli della politica italiana. La transizione incompiuta, nell’evoluzione della riflessione cattolica in campo bioetico e di etica sessuale-familiare, ha tre grandi effetti sulla politica italiana: una più o meno indiretta legittimazione della ricerca, da parte del centro-destra italiano, di un identità nuova, dopo il fallimento del berlusconismo, da forgiare nel fuoco della “guerra culturale” in nome dei valori tradizionali; l’assecondamento, per quanto passivo, della strategia del centro-destra di provocare la rottura del centrosinistra lungo la linea di frattura laici-cattolici; e infine e di conseguenza, la predisposizione delle condizioni culturali e politiche che possono portare alla costituzione, in Parlamento, di una coalizione trasversale, su un arco tematico ridotto ma aperto, finalizzata a rendere irrilevante, su questi temi, l’eventuale affermazione elettorale del centro-sinistra. 6. SI tratta, come è evidente, di un trittico politico, che rappresenta una sfida evidente e obiettiva, per un verso alla laicità dello Stato nella forma dell’autonomia della politica, che viene minata alla radice da una coalizione trasversale che svuota il bipolarismo politico, per così dire “travasandolo” nel bipolarismo etico; per altro verso è una sfida all’esistenza stessa dell’Unione di centrosinistra come soggettività politica che non voglia ridursi a cartello elettorale, ma aspiri ad avanzare alla società italiana una proposta di governo a tutto tondo. Dinanzi a questa sfida, l’Unione di centro-sinistra può rispondere in tre modi diversi. Il primo è la riproposizione dello schema, adottato nel 1996 e poi anche nel 2001, della “libertà di coscienza”. In pratica, sulle questione “eticamente sensibili”, l’Unione decide di non decidere e non esprime nei confronti dei propri eletti alcun vincolo di mandato, sul piano politico-programmatico. Si tratta di una scelta legittima, possibile e anche facile. Che comporta tuttavia tre prezzi da pagare, in termini di subalternità politico-culturale. Il primo prezzo è l’afasia del centrosinistra come tale su questi temi in campagna elettorale, un’afasia che sarà difficile difendere in linea di principio, se non accettando la riduzione della politica a politica economica, e non potrà non produrre debolezza e imbarazzo dinanzi all’offensiva politico-culturale del centrodestra. In secondo prezzo è l’accettazione di una “limitazione della sovranità” in Parlamento, anche nel caso di vittoria elettorale, da parte del centrosinistra, che dovrà subire il formarsi, su questi temi – e poi chissà, da “cosa nasce cosa” – di una maggioranza trasversale che includerebbe una parte dell’Unione e ne escluderebbe un’altra. Terzo, forse più gravoso prezzo, l’Unione finirebbe col subire in modo passivo il tentativo di conquista di un’egemonia di fatto, sul piano politico e culturale, delle posizioni della destra sul “mainstream” che attraversa la società italiana. Si tratta di prezzi che, a mio modo di vedere, l’Unione non può permettersi di pagare senza fare bancarotta, almeno sul piano politico-culturale. La seconda via, opposta alla prima, è quella di contrastare la sfida mettendo in campo quello che potremmo definire uno “zapaterismo all’italiana” (ben al di là di quanto pensi e faccia il Governo del PSOE in Spagna): ovvero una ridefinizione dell’identità del centrosinistra all’insegna del laicismo e dell’estremismo libertario. Questa seconda via condivide la tesi dell’esistenza di una guerra culturale e ritiene che al “bipolarismo politico” corrisponda un bipolarismo etico, che la nostra società sia divisa in due come una mela e che la strada per vincere non sia la conquista del grande “mainstream” centrale, del quale non si riconosce l’esistenza, ma la motivazione e mobilitazione della propria parte. Come abbiamo già visto si tratta anche in questo caso di una via subalterna e perdente. Al di là di ogni considerazione, pare difficile pensare che l’Unione possa imboccare questa seconda via senza cessare di esistere come tale. Non resta allora, guarda caso, che la “terza via”. È la via della valorizzazione dell’Unione – e tanto più, in essa, della Federazione dell’Ulivo – come casa comune, luogo d’incontro strategico e permanente, non tattico e transitorio, di laici e cattolici. Un incontro che ha alla sua base la costruzione, attraverso un processo di contaminazione, di una comune cultura politica e non solo di un programma comune. 7. La riproposizione, il rilancio del disegno della casa comune di laici e cattolici è la risposta ferma e serena, alla sfida della destra e alle tentazioni neoclericali, che il centrosinistra può e deve mettere in campo. Vorrei sottolineare ancora che deve trattarsi di una risposta culturale e non solo politica. Una risposta che deve tradursi in un programma comune, frutto di uno sforzo di convergenza tra di noi che risulterà tanto più agevole quanto più sarà ispirato dal comune intento di convergere, tutti insieme con gli interrogativi e le aspirazioni che esprime il grande mainstream che attraversa la società italiana. Per questo - al di là delle molteplici questioni di merito, sulle quale il sondaggio di Mannheimer di per sé offre una pista di straordinario valore e che andrebbero approfondite in uno stringente confronto programmatico del centrosinistra - la risposta dell’Unione deve nutrire la doverosa – e quindi umile – ambizione di concorrere al rinnovamento dell’etica pubblica, perfino della religione civile, del nostro Paese. Questo vuol dire, per usare di nuovo le parole di Gordon Brown, “dominare il centro” del campo politico e non solo “occuparlo”. Facciamo qui i conti con due grandi questioni del nostro tempo – l’etica pubblica e la religione civile - sulle quali, nel concludere questo ragionamento introduttivo, mi limito a proporre qualche breve accenno. La prima grande questione è quella del rapporto tra religione civile e quelle che Gian Enrico Rusconi definisce “religioni di Chiesa”. La destra – si pensi su questo punto all’insistita riflessione del Presidente Pera – tende ad identificare la religione civile con una religione positiva – “la tradizione giudaico-cristiana” – a sua volta ridotta allo stato laicale di “radice culturale”. Si tratta di un approccio che, a mio modo di vedere, offende i credenti, prima ancora dei laici, perché pretende di separare la religione dalla fede, quasi potesse esistere un senso del cristianesimo separato dal Cristo, dallo scandalo della Croce e dalla speranza della Risurrezione. O un senso del giudaismo privato del tragico mistero del silenzio di Dio. E questa separazione tra religione e fede, per di più è finalizzata a marcare un confine, a presidiare una frontiera, se del caso, a fornire un vessillo alla spada. Solo separando la religione dalla fede, infatti, appare possibile utilizzare la religione per bestemmiare la fede. D’altra parte da Costantino in avanti, la Chiesa è stata più volte tentata di offrire la religione cristiana, come surrogato della religione civile che manca o vacilla; e di confondere questo connubio con l’evangelizzazione. “In hoc signo vinces”: è almeno dal quarto secolo che così viene rovesciata, in modo blasfemo, la perentoria affermazione di Cristo davanti a Pilato: “Il mio Regno non è di questo mondo” (G.V 18,36). Né l’Unione Europea, né la Repubblica italiana hanno bisogno del cristianesimo come “fondamento” della convivenza civile. Tanto meno ne hanno bisogno per escludere e per difendesi. L’Unione Europea ha bisogno di una Costituzione che non riesce a darsi. L’Italia una Costituzione ce l’ha. Non siamo idolatri della Carta, che per noi, nella sua seconda parte, è “semper reformanda”. Ma è sulla prima parte che è possibile, necessario, doveroso, costruire un moderno “patriottismo costituzionale”, come ricorda quotidianamente il Presidente Ciampi. Quella è la nostra religione civile, la religione civile che è dovere di tutti i cittadini italiani e di quanti vivono nel nostro paese, rispettare e di difendere: siano essi cattolici o ebrei, cristiani o musulmani, credenti o non credenti. La seconda grande questione riguarda il rapporto tra la sinistra, il centrosinistra, e l’etica pubblica. Facciamo qui i conti, necessariamente, con il tema della libertà. La nostra associazione definisce la sinistra come lo schieramento che crede nella “libertà uguale”. Non propongo di cambiare il nostro logo, al quale sono affezionato. Ma di approfondire la nostra riflessione. La sinistra crede nella libertà uguale anche perché crede nella libertà responsabile. La libertà non si risolve nel principio di piacere, ma fa i conti, kantianamente, con gli imperativi della morale, della coscienza, della responsabilità nei riguardi e rispetto agli altri. Dopo aver sollecitato la Democrazia Cristiana a guardare al ’68 come a “tempi nuovi che si annunciano”, negli anni settanta la riflessione di Aldo Moro si faceva più preoccupata. “Questo Paese non si salverà – diceva al Congresso di Roma del 1976 – e la stagione dei diritti si rivelerà effimera, se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere”. Non c’è nulla di nostalgico in queste parole di Moro, che non a caso parla di “nuovo senso del dovere”, necessario a rendere non effimere le conquiste della “stagione dei diritti”. E non c’è alcuna nostalgia, da parte nostra, nel rievocarle. C’è piuttosto l’intento di evidenziare come esista anche una profonda radice italiana nella riflessione attuale, attualissima, sulla “terza via”, quella “terza via” che in Clinton prima e in Tony Blair poi è anche e forse soprattutto rivisitazione della categoria della libertà come responsabilità. “La mia politica – scriveva Blair in un Pamphlet per la Fabian Society del 1998 sulla terza via - la mia politica è radicata sulla convinzione che noi possiamo realizzare noi stessi come individui solo in una vitale società civile, che comprenda famiglie forti e istituzioni civiche presidiate da un governo intelligente. Per consentire alla maggior parte degli individui di riuscire nella vita, la società deve essere forte. Quando la società è debole, potere e ricchezze finiscono nelle mani dei pochi e non dei molti. I valori non solo assoluti e anche quelli più grandi possono entrare in conflitto tra loro. La nostra missione è promuovere e riconciliare i quattro valori essenziali ad una società giusta, che massimizzi la libertà e valorizzi le potenzialità di tutto il nostro popolo: pari dignità, opportunità per tutti, responsabilità e senso della comunità”. Non si potrebbe dire meglio Grazie per l’attenzione