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Il futuro dell’Europa, il destino dell’Italia, le prospettive dell’Ulivo

Relazione introduttiva all'Assemblea nazionale dei Cristiano Sociali - Chianciano Terme, 1 marzo 2003

Cari amici e compagni,

teniamo questa nostra VII Assemblea in un momento drammatico, nel quale il mondo intero trattiene il respiro, come a prepararsi ad un colpo violento e tremendo. Intorno a noi tutto si è fatto incerto: il futuro dell'Europa, il destino dell'Italia, le prospettive dell'Ulivo.

Non possiamo allora fare della nostra assemblea un incontro introverso. Dobbiamo farne un momento di dialogo e di confronto su ciò che ci accade attorno. Dobbiamo rivolgerci reciprocamente la domanda su dove e come possiamo portare il nostro contributo, su dove possiamo lasciare il nostro piccolo obolo, come la vedova del Vangelo.

"Alzati gli occhi - racconta il Vangelo di Luca (Lc 21, 1-4) - vide alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro. Vide anche una vedova povera che vi gettava due spiccioli e disse: 'In verità vi dico: questa vedova, povera, ha messo più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno deposto come offerta del loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere'".

Venti di guerra, correnti di pace

C'è un vento freddo che spazza il mondo. Un vento che trasporta il rumore sinistro delle armi e già fa presagire il risuonare di grida e lamenti e pianto.

E c'è una corrente calda che gli si oppone, trasportata da milioni di donne e di uomini, di ragazze e di ragazzi, che dall'Australia alla California, passando per l'Europa e l'Italia, come in un atavico rituale collettivo, marciano, cantano, ballano, volti dipinti e drappi colorati, per allontanare la nera maledizione dell'odio, della violenza, della morte.

C'è qualcosa di paradossale in questo contrasto. E' come se la modernità, con la sua intelligenza materializzata, fosse schierata dalla parte della morte: in quelle macchine volanti lanciate contro i grattacieli, o nei missili guidati dai satelliti.

Ed è come se alla vita che non vuole morire e non vuole dare la morte non resti che rifugiarsi nell'antico, quasi nel primordiale: le mani alzate, a scacciare gli spiriti. Forse anche di questo profetizzava quell'evangelico "se non ritornerete come bambini"…

C'è un bambino, nel corpo di un omino anziano, magro come un paria indiano, agile come un montanaro, alla testa della corrente calda. E' un missionario, lo chiamano padre Alex. Nella sua parola è come se si incontrassero la preistoria e il futuro della modernità.

Dice padre Alex che la guerra deve diventare un tabù, come l'incesto o l'antropofagia. E' come voler rifare la preistoria, rivivere in modo diverso l'imprinting originario dell'uomo, fermare la mano di Caino che sta per colpire Abele. Ma è anche, all'opposto, dare un senso alla modernità, darle uno sbocco antropologico e non solo tecnologico. E' come dire: ai nostri occhi moderni la guerra è pratica barbara, primitiva, ripugnante. Per questo va bandita, ovunque e per sempre.

Milioni di persone la pensano come lui. Milioni di persone pensano, a milioni pensiamo, in Occidente, che all'immane tragedia della guerra ci si può forse rassegnare, quando si sia costretti a difendersi da un'aggressione, ma è invece colpevole follia essere noi ad armare una guerra per portarla ad altri, essere noi a fare della guerra la risposta sproporzionata ad una minaccia della quale non riusciamo a percepire né l'imminenza, né una gravità adeguata alla violenza della risposta.

Il 15 febbraio, in tutto l'Occidente, l'uomo moderno, con il suo coraggio adulto e la sua paura bambina, è sceso in piazza, dentro quell'immensa fiumana, dipinta dei colori primordiali della vita. Ha rallentato la macchina della guerra, ma non l'ha fermata, tanto meno l'ha distrutta. A muovere quella gigantesca macchina c'è infatti un carburante molto più potente perfino del petrolio: c'è la paura, un'altra paura.

Anche Bush junior, come padre Alex, ha dentro di sé la preistoria insieme al futuro della modernità. Anche l'uomo più potente, alla testa della nazione più ricca, armata dell'esercito più forte della modernità, come fosse un cavernicolo a mani nude, ha paura.

L'11 settembre 2001, l'America tutta, non solo Bush junior, ha avuto paura. Si è risvegliata in un mondo insicuro, per la prima volta nella storia, si è sentita minacciata dentro casa. Ha vissuto l'angosciosa esperienza della vulnerabilità: un temperino può fare tremila vittime, a New York, in una tranquilla giornata di sole.

E' difficile darle torto, alla paura di Bush, quando pensa e dice che chi non ha esitato a darsi la morte per uccidere tremila persone nel cuore di Manhattan – il più spaventoso attentato terroristico della storia umana, un attentato terroristico che ha avuto le dimensioni di un catastrofico atto di guerra – non si fermerà davanti a nulla.

Se le tremila vittime non sono state trecentomila, o magari tre milioni, dice lucidamente la paura americana, è stato solo per ragioni tecniche, non per ragioni etiche. Se quel commando suicida avesse avuto a disposizione armi di distruzione di massa – atomiche, chimiche, biologiche – assai probabilmente le avrebbe usate.

Per questo Bush ha paura e con lui ha paura tutta l'America. Perché un tabù, quello dell'uso terroristico di armi di distruzione di massa, è caduto. E perché c'è tanto odio nel mondo contro l'America. E l'odio fa paura. Una paura tremenda, se quell'odio può dotarsi di armi terribili.

Dopo l'11 settembre: unilateralismo e guerra preventiva

"Il pericolo più serio che la nostra nazione ha di fronte – ha scritto Bush nel suo contestato documento su "La strategia della sicurezza nazionale" – sta all'intersezione tra il radicalismo e la tecnologia. I nostri nemici hanno dichiarato apertamente di essere alla ricerca di armi distruttive di massa e l'evidenza indica che lo stanno facendo con determinazione. Gli Stati Uniti non permetteranno la riuscita di tali sforzi... Coopereremo con le altre nazioni per respingere, limitare e contenere gli sforzi dei nostri nemici di acquisire le pericolose tecnologie. Inoltre l'America, per buon senso e per autodifesa, agirà contro quelle minacce nascenti prima che si siano pienamente realizzate".

E' la dottrina unilaterale della guerra preventiva, giustificata come legittima difesa contro un terrorismo che ha assunto la scala di pericolosità di un attacco bellico. Con la guerra, Bush vuole colpire gli "Stati canaglia", quelli che possono offrire appoggio ai terroristi nella loro ricerca di armi di distruzione di massa.

Il primo bersaglio, dopo l'Afghanistan che ospitava le basi di al-Quaeda, è l'Iraq. Ormai è chiaro a tutti: Bush non vuole solo disarmarlo, l'Iraq. Vuole rovesciare Saddam Hussein, che non solo è un dittatore sanguinario, ma è anche un giocatore senza scrupoli sullo scacchiere internazionale, una vivente minaccia alla pace e all'equilibrio internazionale.

Abbattendo il regime di Saddam Hussein, Bush vuole instaurare nel cuore del Medio Oriente, nell'area dove si concentra la maggior parte delle riserve petrolifere mondiali, accanto alla traballante monarchia assoluta saudita e all'ancora preoccupante regime teocratico iraniano, un esperimento pilota di democrazia araba amica dell'Occidente: fare di Baghdad quel che fu Berlino Ovest negli anni della guerra fredda, la vetrina del mondo libero ai confini col mondo prigioniero di un sistema totalitario.

Perché, sostiene Bush, non c'è pace e sicurezza e non c'è sviluppo, senza libertà e democrazia. Le democrazie non si fanno la guerra tra loro. E non c'è democrazia che non abbia conosciuto lo sviluppo, l'ingresso nella cerchia dei paesi sviluppati.

In Europa, sostiene Bush, quel modello ha funzionato: a Ovest, sulle ceneri del nazifascismo; a Est su quelle del comunismo. Perché non dovrebbe funzionare anche nel mondo arabo? "Gli Stati Uniti - scrive Bush nel documento su "La strategia della sicurezza nazionale" - devono difendere la libertà e la giustizia poiché questi principi sono giusti e veri per tutte le persone del mondo. Nessuna nazione ha la proprietà di tali ideali e nessuna nazione ne è esente... Nessun popolo della terra vuole essere oppresso, brama la schiavitù o aspetta impaziente che la polizia segreta bussi alla porta di notte".

La paura di Bush e dell'America ha prodotto una proposta, che ha l'ambizione di prosciugare l'odio e quindi rimuovere le cause della paura; che intende opporsi all'integralismo islamico non solo con la forza delle armi, ma anche con quella di un grande disegno geo-politico non privo di suggestioni etiche e perfino religiose, con la ripresa del tema della missione salvifica dell'America nel mondo.

Non dobbiamo commettere l'errore di sottovalutare la proposta di Bush all'America e al mondo. Non sottovalutarla, ovviamente non significa condividerla. Significa però prenderla sul serio, prendere atto che con essa si debbono fare i conti sul terreno della politica e che non ce la si può cavare con un'invettiva morale. Del resto, non c'è nulla che neghi la morale più del moralismo, ossia dell'attitudine a giudicare senza sforzarsi di capire.

Solo l'Onu può autorizzare l'uso della forza

Resta il fatto che la proposta di Bush fa paura: alla maggioranza degli europei, ma anche a tanti americani. Al di là delle divisioni tra i nostri governi, noi europei, anche quanti tra noi – e sono la stragrande maggioranza – nutrono non solo gratitudine, ma amicizia vera per l'America e piena solidarietà con le sue paure, troviamo più ragionevole, saggio, lungimirante, oltre che etico, lavorare a diffondere la democrazia nella pace, piuttosto che imporla con la guerra.

Non siamo sempre del tutto sicuri di avere ragione. Sappiamo che è stato lo spiegamento degli euromissili, anzi la sola minaccia di installarli, ad accelerare negli anni Ottanta la liberazione dei Paesi dell'Est e della stessa Russia dal totalitarismo comunista. E sappiamo anche che senza l'uso della forza da parte della Nato, nei Balcani sarebbe ancora vivo il mostro sanguinario della guerra etnica, con i suoi cecchini, i suoi massacri, le sue fosse comuni.

Ma la via di fare la guerra per portare la pace è troppo tortuosa per non lasciarci perplessi e troppo azzardata per non farci paura.

Tra mille contraddizioni e mille dubbi, la nostra paura europea, che è paura della paura americana, sta faticosamente generando un ragionamento, "l'avvio di un'analisi", l'ha definita Romano Prodi, a partire da due forti obiezioni rivolte a Bush.

La prima obiezione poggia sul terreno della legittimità, ma non è un'obiezione formalista. La proposta di Bush ci pare illegittima perché unilateralista, come tale contraddittoria con il principio e il valore per cui l'uso della forza, per essere legittimo, deve essere deciso in sede multilaterale, innanzi tutto in sede Onu.

Come ha scritto nelle scorse settimane Filippo Andreatta, "il coinvolgimento delle istituzioni internazionali e delle loro procedure giuridiche non è affatto opzionale, ma necessario". Infatti, "la posizione multilateralista si basa sulla convinzione che vi siano due modi distinti di usare la forza, l'uno unilaterale e parziale, l'altro multilaterale e imparziale, e che il secondo sia decisamente preferibile al primo in quanto finalizzato a difendere, piuttosto che a minare, le regole internazionali di comportamento."

A questa logica multilaterale dell'uso della forza, rinvia del resto l'articolo 11 della nostra Costituzione, il quale nel ripudiare "la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni" e "promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".

L'interpretazione prevalente dell'articolo 11, quella meglio fondata sulle intenzioni dei padri costituenti, come esplicitate nei lavori preparatori del testo, sostiene che attraverso di esso l'Italia ripudia la guerra di aggressione e ammette la legittima difesa del Paese o della comunità internazionale, ove deciso dall'Onu. Il ripudio e la cessione di sovranità vanno infatti letti insieme.

Siamo quindi in presenza di una rottura rispetto allo Stato fascista e alle sue guerre di aggressione, ma non della scelta di un pacifismo assoluto: del resto, la Costituzione nasce dalla Resistenza e dalla guerra di Liberazione. Siamo piuttosto davanti alla decisione dell'Italia di chiedere di entrare nell'Organizzazione delle Nazioni unite e di aderire alla sua Carta, già in vigore quando la Costituzione fu approvata.

Il capitolo VII della Carta dell'Onu disciplina la "azione in caso di minaccia contro la pace, di rottura della pace e di atto di aggressione", demandando al Consiglio di sicurezza la constatazione di queste fattispecie e l'assunzione di misure di pressione che non implichino l'uso della forza (articolo 41), ovvero, sulla base dell'articolo 42, "altre operazioni eseguite da forze aeree, navali, o terrestri di Membri delle Nazioni Unite".

La Carta dell'Onu non esclude quindi il ricorso alla forza, neppure quando si tratti di reagire ad una semplice "minaccia contro la pace". Ma espropria di tale strumento la sovranità del singolo Stato, demandando una decisione tanto grave al solo Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Certo, a nessuno sfugge la fragilità dell'Onu, né si possono ignorare i suoi limiti – a cominciare dal fatto che l'Onu non dispone di una propria forza di polizia internazionale – o i condizionamenti da parte delle grandi potenze ai quali è strutturalmente esposta. L'Onu è davvero un "palazzo di vetro".

E tuttavia, dell'Onu si può dire quel che diceva Maritain della democrazia, quando ne scriveva nel pieno della Seconda Guerra mondiale: "La democrazia è la fragile navicella sulla quale viaggiano le speranze temporali dell'umanità". Questa "fragile navicella", sul piano dei rapporti internazionali, oggi sono le Nazioni Unite. E' su quel piccolo legno che viaggiano le nostre speranze temporali di dare un ordine alle relazioni internazionali, di costruire fondamenta solide alla pace, di arrivare un giorno non lontano ad affermare il nuovo tabù, il tabù della guerra.

Per questo non possiamo condividere con Bush l'idea di una guerra preventiva unilaterale. Il mondo ha bisogno di un "nuovo ordine", che superi l'attuale "disordine stabilito". Ma l'America non deve pensare di poterlo instaurare da sola, il "nuovo ordine mondiale", per la semplice ragione che da sola non può farcela.

Proprio perché quel "nuovo ordine mondiale" deve essere l'ordine democratico, nella libertà e nella giustizia, che tutti invochiamo e al quale tutti i popoli aspirano, solo la comunità internazionale nel suo insieme può riuscire a costruirlo: beninteso con un'America e un'Europa che dentro la comunità internazionale, dentro le Nazioni Unite, sostengano insieme, con comune determinazione, questa grande idea del futuro del mondo.

Dall'Europa una via stretta per evitare una guerra sbagliata

Ma la proposta di Bush di portare la guerra in Iraq merita una seconda obiezione, accanto a quella sulla sua legittimità. E' un'obiezione che riguarda la sua ragionevolezza rispetto all'obiettivo che ci si propone, quello di costruire un mondo più sicuro.

"L'Iraq – ha scritto Lucia Annunziata – è un Paese forte e politicamente rilevantissimo: l'intervento militare comporta una sfida tremenda; a partire dal fatto che per la prima volta, dalla Seconda Guerra mondiale, ci si potrebbe presentare lo scenario di un assedio ad una grande città come Baghdad. Non ci sono idee chiare, mi pare, su come questi rischi di intervento verranno ammortizzati. Ancora meno chiara è la prospettiva politica del dopo-Saddam. Che è poi il maggiore obiettivo della guerra. Governo provvisorio unitario e, nel caso, con quale sostituzione per Saddam? L'alternativa, il fallimento di un passaggio morbido a un dopo-Saddam, qual è? Una occupazione militare di lungo periodo del Paese? E con quali costi?"

"Tutti questi dubbi – conclude Lucia Annunziata – stanno a fronte del rischio massimo che si profila sullo sfondo di questo intervento. E il rischio non è quello di una sconfitta militare – che non è tecnicamente possibile – quanto piuttosto di una conduzione della guerra con molte vittime e un post-Saddam caotico. Scenario che innescherebbe una crisi economica dell'Occidente e una destabilizzazione ulteriore del mondo arabo".

Anche nel caso in cui fosse dichiarato legittimo dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, un intervento armato in Iraq potrebbe insomma rivelarsi un tragico errore. E non c'è bisogno, per sostenere questa tesi di buon senso, di scomodare il massimalismo pacifista del no alla guerra "senza se e senza ma": una posizione rispettabile, se sostenuta in buona fede; una posizione che attraversa la coscienza di ciascuna persona degna di questo nome; ma che ha il grave inconveniente di radicalizzare lo scontro tra le posizioni in campo e dunque, come ha giustamente osservato Piero Fassino qualche giorno fa, "di rendere più difficile e non più facile il cammino dell'unità" di tutti coloro che intendono usare la politica per evitare la guerra.

Ciò non significa che la grande corrente calda che nei giorni scorsi si è opposta al gelido vento di guerra non abbia avuto e non abbia un grande e positivo ruolo politico, oltre che culturale e morale. Rallentando la corsa della macchina da guerra americana, il movimento per la pace ha conquistato tempo prezioso per quanti si battono per evitare la guerra.

A cominciare dall'Europa, che proprio dalle manifestazioni per la pace ha tratto lo spunto per riproporsi sulla scena con quella "voce sola", per quanto inevitabilmente polifonica, che Romano Prodi aveva inutilmente invocato nei giorni nei quali il vento della guerra soffiava più forte.

L'Europa ha parlato il 17 febbraio, due giorni dopo le grandi manifestazioni popolari. E ha detto tre cose molto chiare. Primo: che l'Iraq è una minaccia per la pace e che va quindi disarmato. Secondo: che questo compito spetta all'Onu e al Consiglio di sicurezza, attraverso gli ispettori con i quali l'Iraq è tenuto a collaborare. Terzo: che i popoli d'Europa vogliono che questo obiettivo sia raggiunto in maniera pacifica, che la guerra non è inevitabile e che l'uso della forza dovrebbe essere solo l'ultima risorsa, che la minaccia del ricorso ad essa è servito fin qui a far rientrare gli ispettori dell'Onu in Iraq e che spetta all'Iraq, accettando e documentando il suo disarmo, la responsabilità di risolvere il conflitto pacificamente.

Con questa presa di posizione, l'Europa ha messo in campo la sua saggezza senza lasciare soli gli Stati Uniti. "Il problema - ha detto Romano Prodi - non è smarcarsi dall'America, ma è come evitare la guerra riuscendo a raggiungere un obiettivo condiviso da tutti: rendere innocuo un dittatore come Saddam Hussein". E' un po' la quadratura del cerchio, ma è in questa direzione che si deve lavorare. Se l'Europa riuscirà a indicare una via d'uscita possibile, non solo salverà la sua unità e l'imprescindibile legame con gli Stati Uniti, ma porrà al tempo stesso le basi per esercitare quel ruolo di potenza mite che è indispensabile per articolare il concetto stesso di Occidente e per dare quindi una valenza non aggressiva, ma inclusiva alla globalizzazione.

Tutte le altre strade non portano da nessuna parte. Non porta da nessuna parte la divisione dell'Europa tra allineati e dissidenti rispetto alla politica dell'amministrazione americana. E non porta da nessuna parte, in particolare, una politica estera italiana che, come è continuamente tentato di fare il nostro governo, pensi di poter avere un ruolo, contro, o anche senza, l'unità dell'Europa.

Il compromesso di Bruxelles resta quindi assai fragile, ma davvero senza alternative. Ad esso hanno concorso in modo determinante Kofi Annan, Romano Prodi e Costas Simitis. Ma anche Blair e Schroeder, Chirac e Aznar, e - è giusto riconoscerlo - lo stesso Berlusconi, sia pure condotto per mano dal Presidente Ciampi da una parte e dalla diplomazia vaticana dall'altra.

Sarebbe stata una buona cosa se sulla linea europea, sottoscritta insieme da Prodi e Berlusconi, si fosse attestato tutto il Parlamento italiano. Il Governo ne avrebbe tratto il giovamento di un indirizzo più chiaro dell'ambigua risoluzione della maggioranza. L'Ulivo avrebbe evitato di dare l'ennesima prova di

incertezza strategica, con la zoppicante mozione unitaria, e di divisione interna nel voto sulla mozione di Rifondazione.

Soprattutto, l'Italia ne avrebbe tratto il giovamento di unirsi attorno all'unica linea plausibile di politica estera che la situazione consenta.

Vedremo nei prossimi giorni se i tentativi di risolvere in modo pacifico quella che la diplomazia vaticana definisce "la grave situazione in Iraq" avranno successo, o se invece il freddo vento della guerra prevarrà sulle speranze di pace. In Parlamento, noi voteremo con l'Ulivo, come abbiamo votato con l'Ulivo la scorsa settimana. Ci batteremo perché l'Ulivo voti contro la partecipazione dell'Italia a interventi armati unilaterali, che non abbiano l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Nell'Ulivo, insieme agli altri amici e compagni del centrosinistra, valuteremo i molti se e i molti ma di un'ipotesi di intervento che dovesse avere l'avallo delle Nazioni Unite: un avallo del quale, al momento, non riusciamo a vedere il possibile fondamento.

L'ispirazione religiosa tra radicalità e fondamentalismo

Tra le principali sorgenti che hanno alimentato e alimentano la grande corrente calda rappresentata dal movimento per la pace, c'è anche una forte componente di ispirazione religiosa.

Il Papa stesso ha fatto sentire instancabilmente la sua voce per ammonire tutti i protagonisti della vicenda a non lasciare nulla di intentato per scongiurare la catastrofe, umanitaria innanzi tutto, e poi anche politica e culturale, della guerra.

Accanto ai numerosi incontri diplomatici, il Papa ha invitato tutti i credenti a fare del prossimo mercoledì, mercoledì delle Ceneri, una giornata di preghiera e di digiuno per la pace. Raccogliamo questo appello, come singoli innanzi tutto, ma anche, credo senza forzare alcuna coscienza, come movimento: un soggetto politico che sin dalla sua fondazione, dieci anni fa, "osa" declinare esplicitamente la sua ispirazione cristiana.

In questo problematico passaggio di secolo, la questione religiosa è tornata centrale nel confronto e nel conflitto politico. L'ispirazione religiosa è elemento costitutivo, tutt'altro che secondario, di nuovi movimenti di massa come il movimento "no- o new-global", o il nuovo pacifismo.

La questione religiosa è alla base anche di fenomeni inquietanti come la minaccia del fondamentalismo e dell'integralismo: in particolare, ma non esclusivamente, di origine islamica. Per parlare di fenomeni assai diversi tra loro, si sono visti fondamentalismi e integralismi cristiani e cattolici, talora in feroce conflitto tra loro, nei Balcani; ci sono elementi di fondamentalismo religioso tra le radici della nuova destra repubblicana negli Stati Uniti; mentre a tutti è noto il potere dei piccoli partiti fondamentalisti ebrei in Israele.

Nel bene e nel male, la dimensione religiosa della politica non è insomma un residuo di un passato destinato a soccombere sotto i colpi della secolarizzazione. Al contrario, essa si sta dimostrando capace di assumere forme nuove e assai varie. Diversamente da quanto era avvenuto in particolare nella seconda metà del secolo scorso, l'ispirazione religiosa abita tuttavia sempre meno nei partiti e sempre meno alimenta culture politiche collocabili in quello spazio centrale che nei regimi democratici include (opponendole tra loro) le posizioni moderate alla Helmut Kohl e quelle riformiste alla Jacques Delors.

Essa sembra piuttosto tendere oggi ad incarnarsi nelle forme più "im-mediate" dei movimenti sociali e nella loro visione inevitabilmente semplificata (che non vuol dire ingenua) della realtà. Una visione tendenzialmente dualistica (bene-male, buoni-cattivi), come tale più orientata al giudizio morale e alla ricerca delle colpe, che alla comprensione culturale e alla ricerca delle cause. In definitiva, l'ispirazione religiosa in campo politico sembra dover rispondere innanzi tutto ad una domanda di radicalità, rispetto alla quale la vigilanza contro degenerazioni di tipo fondamentalista o integralista, in nome del principio di laicità – una vigilanza che era strutturale per la generazione di leader cattolici che avevano preparato il Concilio e in quella che ad esso si era formata – tende ad attenuarsi fino quasi a spegnersi del tutto.

Ciò non significa, si badi bene, appiattire ogni forma di movimentiamo di ispirazione religiosa nella categoria del fondamentalismo o dell'integralismo. Significa tuttavia osservare come anche il movimentismo più lontano dal fondamentalismo-integralismo aggressivo e violento, tenda a criticare quest'ultimo più per i contenuti della sua visione che non per il rapporto di tipo immediatistico che esso stabilisce tra la dimensione religiosa e quella dell'azione collettiva.

Si tratta di un "segno dei tempi" che va compreso, prima che giudicato. La sua "verità interna" sta nel mettere in luce la debolezza e l'obsolescenza dei tradizionali canali di rappresentanza e mediazione politica, nei quali faticano a passare le domande radicali dinanzi alle quali è posta la coscienza e l'intelligenza dell'umanità contemporanea.

La politica, nelle sue istituzioni e nei suoi soggetti, appare troppo occupata attorno alle pagliuzze, mentre sembrano sfuggirle le travi. E' capace di infinite contese su questioni tutto sommato marginali, mentre assiste impotente a immani tragedie, che coinvolgono e sconvolgono l'intero genere umano.

Non c'è da stupirsi, dunque, che la politica delle istituzioni e dei partiti appaia assai meno attraente di quella dei movimenti. E non c'è da stupirsi che l'ispirazione religiosa in generale, e quella cristiana in particolare, orfana dei partiti, tenda a spostarsi verso forme movimentiste. Semmai c'è da cogliere - e da tematizzare, con serena franchezza - l'aspetto problematico di questa tendenza, in termini di caduta del valore della laicità, sul terreno ecclesiale, e di indebolimento della democrazia rappresentativa, sul terreno delle istituzioni politiche. E c'è da formulare ipotesi di lavoro per capovolgere i rischi in nuove opportunità.

La radicalità evangelica del "Magnificat"

Alla base di qualunque ipotesi di lavoro sul futuro dell'ispirazione cristiana in politica, non può che esserci la meditazione, spirituale prima ancora che intellettuale, sulla compenetrazione della dimensione della radicalità con quella della mediazione e della laicità.

E' all'inizio del Vangelo di Luca (Lc 1, 52-53) che compare l'Inno alla radicalità più "estremo" della storia umana. E' contenuto nei versi centrali del "Magnificat", la preghiera con la quale Maria – che non era una regina, ma una ragazza-madre promessa sposa a un falegname tentato di ripudiarla – loda il Signore perché "ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote."

Questa è la radicalità evangelica. Il Dio di Gesù non è "oppio per i popoli" e "instrumentum regni" per i signori della terra, ma è il Dio eversivo che ha rovesciato i potenti e saziato gli affamati. E ha fatto tutto questo non con la spada, come volevano gli zeloti, che aspettavano un Messia politico, ma perché, dice ancora Maria, un versetto sopra, "ha spiegato la potenza del suo braccio, / ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore".

Ha rovesciato ed ha saziato, ha disperso: tutti verbi al passato prossimo, non al futuro. Non è utopia, è già realtà. Anche se è un "già" che è anche "non ancora". Perché, agli occhi della storia, i potenti sono ancora sui troni e gli affamati sono ancora a mani vuote, perché i superbi non sono stati ancora dispersi nei pensieri del loro cuore.

Il Regno è già tra noi, ma non è ancora compiuto. "Questa tensione - scrive Oscar Cullmann nel suo "Dio e Cesare" - è essenzialmente costitutiva dell'escatologia cristiana". E su di essa si fonda la laicità della politica. "Il dualismo che constatiamo nel Nuovo Testamento - scrive ancora Cullmann - non è un dualismo tra questo mondo e l'aldilà, come presso i Greci; è un dualismo temporale tra il presente e l'avvenire. Per questo il cristianesimo primitivo è così libero nei confronti del mondo, non approvato ma neppure riprovato, in linea di principio, e per questo esso non porta ad un rifiuto ascetico dei dati presenti, tra i quali si trova, per eccellenza, lo Stato".

Insomma, la radicalità evangelica non è altra cosa dalla mediazione politica e dalla laicità delle istituzioni. E' proprio perché il Signore "ha spiegato la potenza del suo braccio", che si è aperta nella storia un'altra possibilità. E questa possibilità nuova va costruita nella storia e con la politica, senza perdere di vista la prospettiva del nuovo, ma anche senza avere la pretesa di saltare, della storia, le lentezze e le contraddizioni, o di annullare, della politica, i limiti radicali e le immancabili opacità.

Dobbiamo dunque guardarci da un esodo dell'ispirazione cristiana, non dico dalla politica dei partiti e delle istituzioni, ma dalla "cultura politica", che è fatta di riflessione e di azione, in favore di un'opzione se non esclusiva, quanto meno preferenziale, per il movimentismo. Sarebbe un tradimento della stessa radicalità evangelica, che non è altro dalla laicità e dalla mediazione. E sarebbe un errore, destinato a prolungare nel tempo i suoi effetti dannosi.

C'è una lettera, scritta in piena Seconda guerra mondiale, da Alcide De Gasperi a Stefano Jacini, illuminante nella sua schietta sincerità: "Il seme della rinascita del partito e dei sindacati cristiani - scrive De Gasperi - sarebbe stato custodito dall'Azione cattolica? Forse tu volevi esprimere che la formazione religiosa della gioventù rappresenta un humus fecondo per la rinascita del seme, ed è una speranza che in questi tempi ho manifestato pubblicamente anch'io. Ma custodia del seme no! Storicamente non è vero, quando nei circoli ufficiali dell'AC si tentò di riprendere la formazione sociale, si dovette cominciare totalmente ab ovo, tanto era lo stato di abbandono e tale la devastazione. In quanto alla politica, meglio non parlarne... L'azione politica e l'azione economico-sociale, per rinascere, hanno dovuto rifarsi in questi giorni a quegli ex-popolari ed ex-sindacalisti bianchi che in un altro momento erano stati invitati o ad uscire dall'AC o a farvi da palo... Il massimo che si può fare - conclude De Gasperi - è rinunziare al vanto di aver conservato il seme noi stessi, ma attribuire il merito proprio a chi ne lasciò soffocare persino il germe, sarebbe come collaudare il metodo seguito e raccomandarlo per ulteriori esperimenti, quod Deus avertat".

I soggetti politici cambiano, insieme alle condizioni storiche. Ma una tradizione di cultura politica va preservata e alimentata, perché non è il frutto dell'emozione di un