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Il mio ricordo di Pierre Carniti

I lavoratori poveri erano la sua ossessione. E per questo, pur nell’affetto e nella vicinanza, non era contento di noi. Come Gorrieri non vedeva, nel centrosinistra nelle sue diverse stagioni, la stessa preoccupata e solidale attenzione ai lavoratori e ai

 


Quando cessai il mio mandato di presidente degli universitari cattolici della Fuci (febbraio 1983), Nino Andreatta mi mandò a chiamare e mi propose di andare a lavorare con lui all’Arel. Dopo averlo ringraziato, gli risposi che avevo già accettato una proposta di Pierre Carniti alla Cisl. Non senza imbarazzo, cercai di spiegargli le ragioni di quella scelta: il sindacato, i lavoratori, non proprio studenti-operai-uniti-nella-lotta, ma quasi. Senza battere ciglio, Andreatta mi sorrise dietro alla pipa e mi disse: “non si preoccupi, è comunque un modo di sostenere il capitalismo”. Non ho mai dimenticato quella lezione di demitizzazione ideologica. Ma andai a lavorare alla Cisl, con Carniti, negli anni cruciali della prima concertazione, quella culminata con l’accordo di San Valentino e poi il referendum sulla scala mobile.
Che cosa aveva la Cisl di Carniti per attirare e affascinare tanti giovani intellettuali cattolici democratici, come ero io allora? Penso che fossero tre, più uno, gli elementi di fascino. Innanzi tutto, nel panorama politico-culturale degli anni ‘80, la Cisl era una grande organizzazione di matrice cattolica, ma che, proprio grazie alla nuova leva di dirigenti guidata da Carniti, si era liberata del collateralismo con la Dc e aveva sviluppato una sua identità autonoma. La Cisl era vista da noi come una forza di sinistra, che tuttavia, non solo non era comunista, ma aveva nel suo dna robusti anticorpi rispetto alla egemonia politica e culturale del Pci. Al contrario della generazione immediatamente precedente alla mia (quella del ‘68, per capirci), che aveva subito il fascino del Pci di Berlinguer, noi eravamo alla ricerca di un approdo nuovo. Alla fine degli anni ‘70, da ragazzini, avevamo sostenuto Moro e Zaccagnini e frequentato i convegni della Lega democratica di Scoppola, Ardigò, Gorrieri, Ruffilli, Prodi, Andreatta, Paola Gaiotti. Dialogo col Pci, certo, ma da “cattolici democratici”, non “cattocomunisti”. Ma all’inizio degli anni ‘80, tutta quella storia era precipitata nella leadership di De Mita, che rispettavamo, apprezzavamo, ma insomma... eravamo alla ricerca di altri punti di riferimento. La Cisl degli anni di Carniti era un grande sindacato, ma era molto di più di un sindacato: era, o perlomeno si definiva, un “soggetto politico autonomo”. Detto oggi può apparire strumentale, ma la Cisl, quella Cisl, era uno dei pochi, forse l’unico posto in Italia dove si poteva respirare un’aria diversa, europea, perfino americana: un po’ Spd, un po’ Labour, un po’ Delors, un po’ Partito democratico Usa. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento”, era stato lo slogan del Congresso Cisl del 1981, quello che aveva consacrato la leadership di Carniti e rilanciato la sua proposta politica “autonoma”, dopo la disfatta della vertenza Fiat. Le tesi di quel Congresso le avevamo lette e rilette, sottolineate e discusse fino a consumarle. Furono, per me e molti altri, una iniziazione al riformismo, alternativa, anche se su non pochi punti convergente, con la piattaforma del Psi di Craxi, che guardavamo anch’essa con interesse, ma come qualcosa che non potesse riguardarci direttamente, per ragioni etiche e storiche insieme. Insomma, la Cisl di Carniti ci consentiva di sentirci dalla parte “giusta”: coi lavoratori, nel sindacato, a sinistra, una sinistra riformista, europea e occidentale, anticomunista e socialista europea, più che italiana, dunque senza intrupparsi nella non esaltante compagnia craxiana.
Secondo motivo di fascino: la Cisl di Carniti era una organizzazione che investiva in pensiero, cultura, sapere, elaborazione intellettuale, come forse solo il Pci allora faceva. Era abitata da dirigenti sindacali perlopiù autodidatti, che da giovani operai, tra gli anni ‘50 e ‘60, erano stati “scoperti” dalla Cisl delle origini, che li aveva fatti studiare, talvolta perfino all’estero, molti al mitico Centro Studi di Firenze. Carniti era il numero uno di questa generazione di “operai intellettuali”, divenuti dirigenti sindacali e per questa via classe dirigente del Paese. E poiché quello che fai a vent’anni finisci per ripeterlo per tutta la vita, Carniti e i suoi non hanno mai smesso di leggere, studiare, pensare, scrivere. E lo hanno fatto facendosi aiutare, stimolare, consigliare, (mai dirigere!) da una schiera di professori, ricercatori e quadri sindacali intellettuali. A me, poco più che ventenne, è capitato di fare da “redattore” junior di queste discussioni tra sindacalisti e intellettuali, finalizzate ad elaborare linea politica generale e proposte di merito. I sei anni che ho passato alla Cisl, prima con Carniti, poi con Mario Colombo, mi sono serviti più di una seconda laurea. Dove altro ti poteva capitare (per non dire, ahimè, di dove ti può capitare oggi...) di dover scrivere testi raccogliendo il pensiero di sindacalisti come quelli, arricchito dell’apporto di personalità come Ezio Tarantelli, Gino Giugni, Tiziano Treu, Gian Primo Cella, Guido Baglioni, e poi ovviamente Bruno Manghi, per non citare che alcuni dei capofila di quella schiera di intellettuali? L’enfasi della Cisl di Carniti sull’”autonomia” non si traduceva in “autarchia”, in chiusa autosufficienza, ma in competizione col governo, la Confindustria, la Cgil e il Pci sul piano della qualità anche tecnica delle proposte, oltre che sulla visione di futuro del mondo del lavoro e del Paese.
Terzo motivo di fascino: la Cisl di Carniti era un pezzo di Nord trapiantato a Roma. La Cisl di quegli anni era ancora una confederazione a dominanza operaia e industriale del Nord. Quando Carniti lasciò la segreteria a Franco Marini, nel 1985, le cose stavano velocemente cambiando. Sotto i colpi della deindustrializzazione e delle grandi ristrutturazioni, la classe operaia, fortemente ridimensionata, stava perdendo l’egemonia nel sindacato bianco, a vantaggio delle categorie del pubblico impiego e dei pensionati. Ma all’inizio degli anni ‘80 la leadership era ancora saldamente nelle mani del Nord industriale e operaio. E quindi aveva ragione Andreatta: la Cisl era un pezzo importante e pregiato del capitalismo italiano. E affacciarsi alla Cisl, per un giovane intellettuale romano, era uscire dalla capitale barocca, la doppia capitale dello Stato e della Chiesa, dove si discettava di teologia, filosofia e diritto, ed entrare a Milano, la capitale del nostro capitalismo, e fare i conti con le questioni dell’economia, del lavoro, della finanza. E misurare tutta la distanza tra le due Italie e, in particolare, tutta l’inadeguatezza dell’Italia politica a dare risposte ai problemi “moderni”, dinanzi ai quali si trovava l’Italia dell’economia e del lavoro. Insomma, si diventava “capitalisti” (e riformisti) per forza.
Tre motivi di fascino, più uno. Quell’uno era Carniti. Un uomo sul piano fisico relativamente piccolo, fragile, dalla salute malferma. Un uomo schivo, timido, taciturno, anche se cordiale e perfino affettuoso con chi lavorava con lui. Ricordo alcune ore passate da soli nel suo ufficio, in silenzio, ad attendere i risultati del referendum sulla scala mobile, ascoltando le telefonate in diretta e senza filtro a Radio radicale. Pierre era convinto di perdere e le telefonate lo incoraggiavano in questa sua previsione. E invece vinse. Perché quel piccolo uomo fragile e timido aveva un carisma straordinario e quando prendeva in mano il microfono e parlava ad una piazza o ad un’assemblea si trasfigurava, trasmetteva un’energia che solo i grandi leader sanno trasmettere. Una parte del suo carisma derivava certamente dal suo stile di vita, coerente con le sue radici operaie e popolari fino quasi all’ascesi, intransigente e severo con se stesso fino ai limiti del moralismo.
Carniti non è stato solo un sindacalista. È stato anche un politico, senatore ed europarlamentare. Nel 1993 ha fondato, insieme a Ermanno Gorrieri, i Cristiano sociali, presenza collettiva di cristiani a sinistra. Ha sostenuto i Ds e l’Ulivo, poi il Partito democratico. Ma il suo cuore e la sua mente sono sempre rimasti coi lavoratori, in particolare quelli che lavorano con le mani, o comunque sono sfruttati, umiliati e mal pagati. I lavoratori poveri erano la sua ossessione. E per questo, pur nell’affetto e nella vicinanza, non era contento di noi. Come Gorrieri non vedeva, nel centrosinistra nelle sue diverse stagioni, la stessa preoccupata e solidale attenzione ai lavoratori e ai ceti popolari. Mai come oggi possiamo e dobbiamo dire che, almeno un po’, aveva ragione.